“Gli anni della malaria e della carestia (1879-1880)”
Le rievocazioni storiche sulla Frosinone di cento anni fa (La Città nel 1922) pubblicate nelle scorse settimane sembrano essere state apprezzate dai numerosi lettori. Da molti di essi viene l’invito a trattare altri aspetti della vita cittadina con riferimento, in particolare, agli anni della fine dell’800 e degli inizi del ‘900. Pertanto verrà affrontato, a partire da oggi, un tema purtroppo ancora di estrema attualità, ovvero la diffusione in città di epidemie di vario genere che hanno angustiato i frusinati del passato così come quelli di oggi, da oltre due anni soffrono per il “Covid 19”.
Il nostro territorio è stato investito da tutte le malattie infettive a carattere epidemico diffuse in Italia, e in particolare nella vicina Roma, nel corso dei secoli: a partire da quelle dell’epoca romana e dell’alto medioevo. Particolarmente terribile fu poi la peste del 1300 che sterminò la quasi totalità della popolazione frusinate.
Epidemie di tifo e di colera colpiranno, poi, ripetutamente Frosinone nei secoli successivi fino alla metà del 1800 quando Frosinone era ancora un piccolo centro di nemmeno 10.000 abitanti arroccato sul dorso di un colle con ampia vista sulla Valle del Sacco. Nella seconda metà di quel secolo l’abitato urbano era quasi del tutto racchiuso all’interno dell’antica cinta muraria della “cittadella” medievale, così come era stato più volte ricostruito dopo le numerose devastazioni subite da armate tedesche e spagnole nel corso del XVI secolo e francesi alla fine del ‘700. All’interno di quel ristretto perimetro, sui resti di quelle antiche mura, si innalzavano costruzioni anche di più piani addossate le una alle altre su piazzette e vicoli stretti e tortuosi: quella conformazione solo in parte era dovuta allo scarso spazio a disposizione ma, anche, alle pressanti esigenze di protezioni e di difesa di una città frequentemente assediata e attaccata dalle soldatesche di turno.
In quel contesto le drammatiche condizioni igieniche della città soprattutto per la mancanza di acqua corrente erano permanenti ed esponevano i frusinati a ripetuti pericoli per la propria salute. Come era avvenuto, per esempio, nel 1867 quando si diffuse, in tutta Italia, il colera che a Frosinone fu favorito dalle acque del Cosa inquinate dagli scarichi delle cartiere di Guarcino e dei numerosi mulini sul fiume a monte di Frosinone. Il problema dell’acqua sembrò essere risolto dalla decisione del papa Pio IX di dotare Frosinone, alla fine del 1869, di una “Macchina” per portare nel centro abitato l’acqua captata da alcune sorgenti in contrada De Matthaeis, nei pressi della Mola Nuova. In realtà i continui blocchi nel funzionamento della “Macchina della Fontana” e la mancata realizzazione di un adeguato sistema di fognature continuarono, per diversi decenni, a mantenere nel centro urbano tutte le condizioni favorevoli al verificarsi di ricorrenti epidemie con alti tassi di mortalità infantile.
In particolare i nuovi amministratori di Frosinone, ormai unita all’Italia, si trovarono, nell’ultimo scorcio degli anni ’70 del 1800, ad affrontare due eccezionali emergenze: una rapida diffusione di un’epidemia di malaria che colpì le popolazioni di tutta la Valle del Sacco e una terribile carestia prodotta da ben tre annate consecutive di cattivi raccolti. Le malattie e la fame che imperversarono dal luglio del 1879 a tutto il 1880, colpirono mortalmente almeno il 10 per cento della popolazione tanto che nel Censimento generale del 1881 si registrerà un forte calo della popolazione in tutto il Circondario e, in particolare, nel Capoluogo. Alla data di quel censimento, infatti, gli abitanti del Circondario, che erano stati accertati in 155.155 nel 1871, erano passati a 150.150 mentre a Frosinone, dove i morti superarono le 250 unità, i censiti erano scesi dai 10.161 del 1871 ai 9.768 del 1881.
Ma quali furono le cause della diffusione della malaria nel frusinate? Nei primi mesi del 1879 furono registrate numerose e abbondanti precipitazioni che avevano fatto straripare tutti i fiumi e i torrenti del Circondario e poi, per mesi, le acque erano ristagnate nelle parti pianeggianti del territorio trasformando i campi lavorati in paludi malsane. Quella situazione determinò, dal mese di luglio di quell’anno, lo sviluppo a Frosinone della malaria nella sua forma più grave, la cosiddetta “febbre perniciosa” che provocava la morte in breve tempo.
In un suo studio, il medico comunale dell’epoca, Francesco Pellegrini, individuò le origini del fenomeno nell’abbattimento, avvenuto negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia, delle selve di proprietà pubblica nelle Valli del Liri e del Sacco (a Frosinone quelle di Selva dei Muli e di Selva Piana) per lo sfruttamento del legname per le ferrovie, le costruzioni romane e il carbone. “Alla distruzione di quelle selve, che per secoli oltre a fornire con gli usi civici legname e ghiande per le popolazioni, avevano garantito l’equilibrio ambientale si aggiunsero nella primavera del 1879 - scriveva Pellegrini - le abbondanti piogge e alluvioni e i ristagni d’acqua che favorirono l’’habitat” ideale per le zanzare e quindi la malaria”. Come se non bastasse, la popolazione di Frosinone, in particolare la classe dei contadini, fu colpita, nell’inverno fra 1879 e il 1880, anche da una tremenda carestia causata da una serie di cattivi raccolti. La drammatica situazione fu esaminata in un’apposita riunione del Consiglio comunale che si tenne il 24 novembre 1879: l’adunanza, chiamata a trovare soluzioni a favore della popolazione, fu aperta da una relazione del presidente dell’Assemblea, Nicola Marchioni che denunciò “lo stato miserando in cui versano le classi degli agricoltori e dei braccianti di questo territorio”.
Marchioni portò, poi, a conoscenza dei consiglieri comunali che il sindaco Grappelli aveva già, da parte sua, avanzato una richiesta alla Provincia di Roma per ottenere un mutuo di 30.000 lire che, anche se insufficiente per aiutare efficacemente “le classi povere e gli agricoltori”, sarebbe stato di grande utilità per affrontare l’emergenza. Il dibattito che scaturì dalla relazione Marchioni fece emergere due posizioni circa l’utilizzo della somma richiesta alla Provincia. Da una parte il consigliere comunale Ricci proponeva di acquistare scorte di granturco da distribuire ai contadini mentre dall’altra i consiglieri Simeoni, Scifelli e Sodani, sostenevano l’opportunità di impiegare gli agricoltori in lavori di pubblica utilità, osservando che i contadini di Frosinone, colpiti da ben tre anni di cattivi raccolti, erano talmente carichi di debiti che, ben difficilmente, sarebbero stati in grado di rimborsare il Comune del prestito in granturco. Al termine della riunione fu quantificata in 40.000 lire la somma necessaria per concorrere a dare sollievo alle classi povere e agli agricoltori della città e si concordò, a maggioranza, di impiegare quella cifra per una somministrazione immediata di granturco.
Qualche settimana dopo, nel corso della riunione del Consiglio comunale del 10 gennaio 1880, Grappelli dette lettura di un’altra richiesta di un aiuto finanziario, per complessive 57.000 lire, avanzata questa volta al Governo nazionale “perché al Municipio di Frosinone, deficiente di mezzi necessari, sia concesso un largo sussidio per quei lavori che si è proposto attivare in questa deplorabile stagione a sollievo delle classi indigenti”. A quella richiesta erano allegati diversi progetti, con relativa documentazione, di importanti interventi di pubblica utilità e di speciale interesse per assicurare una possibilità di lavoro alle classi indigenti della città. I lavori indicati dal relatore erano così elencati: “1. Recherebbe molta utilità aprire una nuova strada per accedere alla Stazione ferroviaria, giacché l’attuale dista dalla città cinque chilometri, quindi una strada che ne abbrevia la distanza si rende indispensabile, tanto più che Frosinone essendo divenuto sede del Distretto militare si accresce il bisogno della vicinanza della Ferrovia; 2. Il nostro Comune difetta di un Ospedale onde provvedere ai poveri ammalati e ai militari infermi; 3. Urge compiere i lavori del Camposanto, e quest’opera non può essere ulteriormente ritardata mentre l’attuale sito è quasi interamente occupato, ed ogni indugio può nuocere alla salute pubblica; 4. Infine essendosi diroccata una parte del fabbricato ad uso delle scuole pubbliche, è oltremodo necessario provvedere subito alla ricostruzione del fabbricato per provvedere alla pubblica istruzione”.
Nei fatti tutti quei lavori, pur così chiaramente indicati e programmati, non vennero, almeno nel breve termine, eseguiti: la strada per la Stazione (l’attuale Viale America Latina, per esempio, sarà costruita solo intorno al 1900, i lavori per l’Ospedale civico inizieranno nel 1884, l’allargamento del Camposanto si farà solo alla fine del 1882 mentre il restauro del fabbricato delle Scuole pubbliche non verrà mai eseguito preferendosi ricorrere all’affitto di locali presso privati. Il mancato utilizzo, nell’immediatezza dell’emergenza, di quei fondi non consentì, ancora per lunghi anni, alle famiglie contadine di Frosinone, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione cittadina, di uscire dalle loro tristi e disperate condizioni di vita.
“L’epidemia di colera del 1884-1886 bloccata alle porte di Frosinone”
Sono passati solo quattro anni dalla fine della malaria nella Valle del Sacco quando gli amministratori del comune di Frosinone si trovarono ad affrontare con il colera una nuova grande emergenza sanitaria, alla quale dovettero dedicare il massimo dell’impegno per impedire che l’epidemia facesse vittime in città. La nuova epidemia, proveniente dall’Indocina, era arrivata nella tarda primavera del 1884 nei porti francesi di Tolone e Marsiglia da dove fu portata nel nostro paese dalle migliaia di lavoratori italiani lì emigrati che, rientrando precipitosamente in Italia per sfuggire al morbo, ne causarono la diffusione in quasi tutta la penisola dall’estate di quell’anno.
A Frosinone i giornali locali cominciarono a informare dell’avvicinarsi del colera già dall’inizio dell’estate del 1884; in particolare un giornale locale di tendenza liberal-democratica, “Il Censore”, nella sua edizione del 29 giugno di quell’anno, informava che: “Il ‘cholera’ sviluppatosi nella vicina Tolone si può dire alle porte d’Italia. Tutto da sperare però che anche questa volta esse resteranno chiuse al terribile flagello; ma siccome le precauzioni non sono mai troppe noi esortiamo i cittadini tutti del Circondario a coadiuvare le autorità per l’esatta osservanza delle disposizioni per far sì da scongiurare il morbo, o nella peggiore delle ipotesi, tenersi pronti ad ogni evenienza”.
Da parte sua il Comune cominciò, subito, ad affrontare la situazione predisponendo interventi straordinari per la “nettezza pubblica” e diffondendo una serie di ordinanze rivolte alla cittadinanza con prescrizioni tassative nel campo dell’igiene e dell’alimentazione. Il provvedimento più rilevante adottato nel campo della prevenzione fu, senz’altro, l’ordinanza emanata nei primi giorni di luglio dal Sindaco che “inculcava ai cittadini di fare entro 20 giorni i cessi a fine di premunirsi anche da questo lato contro il morbo minacciante dalla Francia”.
Cominciarono, così, ad apparire sui balconi e sui terrazzini di alcune abitazioni del centro storico i primi “cessi”, molti dei quali visibili ancora oggi. Si trattava di piccole costruzioni in muratura di non più di un metro quadro con una finestrella per la luce e l’aria e con un buco sul pavimento dal quale scendeva un tubo di scarico destinato a immettersi nelle fogne che, però, in buona parte all’epoca erano mal funzionanti o non esistevano affatto. E non furono molti, però, i proprietari di case che si affrettarono a eseguire l’ordinanza comunale e proseguì, perciò, in gran parte dell’abitato, la pratica dei “getti” di escrementi e rifiuti di ogni genere sugli strati di paglia sistemati sotto le finestre. Questa insana consuetudine rappresentava un serio inconveniente per i malcapitati passanti ma costituiva una vera e propria risorsa economica per il Comune che dava in appalto la raccolta del letame e forniva al vincitore della gara un asino e un carretto di proprietà pubblica con cui trasportare lo “stabbio” in un campo nei pressi della chiesa di S. Gerardo dove i contadini potevano acquistarlo per concimare i loro campi.
Ai primi di luglio di quell’anno alcuni giovani, emuli dei protagonisti del “Decamerone” del Boccaccio, avevano voluto reagire alla pesante atmosfera che gravava sulla vita cittadina organizzando una serie di “divertimenti serali” per la gioventù di Frosinone. La data scelta per il primo appuntamento era quella del 14 luglio, proprio il giorno in cui a Parigi e in tutta la Francia si sarebbe festeggiato l’anniversario della presa della Bastiglia: gli organizzatori della “serata”, evidentemente, non potevano che far parte di quei giovani repubblicani e anarchici internazionalisti che, da qualche tempo, erano molto attivi nella vita politica e culturale cittadina. “Una comitiva di giovani di bel tempo - era scritto in un manifesto apparso in quei giorni sui muri della città - si propone di dare in questa stagione colerosa una serie di divertimenti serali lungo la Passeggiata della Via Nuova. Il primo di questi divertimenti avrà luogo lunedì 14 luglio alle 9 e 3/4 precise. Ci sarà da divertirsi parecchio. Le signore e le signorine che vogliono godere dello spettacolo, sono avvisate”.
Qualche giorno dopo, nella sua cronaca cittadina un altro giornale cittadino, il “Ricciotti”, nell’informare che era prevista per il 4 agosto un’altra “serata fiammeggiante” lungo la solita Passeggiata, fece intendere che non tutto, però, era andato liscio durante i “divertimenti” del 14 luglio. Infatti in una riunione degli organizzatori si era stabilito, all’unanimità meno uno, che nella nuova serata sarebbero stati banditi i “tric trac”, i “razzi matti” e le “fontane a botto”’ perché “fatali per le gonnelle e mettono paura al bel sesso”. La decisione era tesa, evidentemente, a tranquillizzare il “mondo muliebre” di Frosinone che era rimasto scioccato perché, a causa dei giochi pirotecnici maldestramente accesi nella prima edizione della festa, avevano preso fuoco alcune sottane ed erano così rimaste scottate le gambe di molte delle gentili partecipanti.
A metà agosto i giornali nazionali, insieme a quelli locali, diffusero la notizia che il colera aveva raggiunto diversi centri della provincia romana e che venivano segnalati diversi casi di contagio nella vicina provincia di Campobasso. A Frosinone, al fine di impedire la diffusione del morbo, venne allora predisposto un “cordone sanitario” attorno all’abitato, furono sospesi i mercati del giovedì e la fiera alla Madonna della Neve e venne ordinata la chiusura di tutte le scuole. Sempre nel mese di agosto, il Comune emanò altre disposizioni che vietavano di introdurre in città lane, stracci e “cose congeneri”, di smerciare cocomeri, meloni, cetrioli e altri prodotti della terra e di lasciar “girovagare” le galline e altri animali domestici per le strade. A due categorie di persone fu severamente interdetto di avvicinarsi alla città: gli arrotini che, notoriamente provenivano tutti dalla zona, ormai poco sicura, di Campobasso e le cosiddette “veneri vaganti”, in altre parole alle prostitute di passaggio, che erano solite esercitare la loro professione nei vicoli più bui del centro cittadino e, in particolare, sotto le arcate dei “Piloni”.
Il 19 di agosto la situazione sanitaria cittadina fu esaminata dal Consiglio comunale in un’apposita “seduta cholerica” nel corso della quale vennero presi altri provvedimenti in linea con le disposizioni governative e si discusse, animatamente, sull’entità dello stanziamento comunale necessario per affrontare l’emergenza. La proposta dell’Assessore al bilancio di investire la somma di 1.500 lire fu bocciata da diversi consiglieri timorosi che venissero imposte, così come era stato proposto, nuove tasse al ceto benestante cittadino. Alla fine si riuscì a trovare la somma di sole 500 lire scovandola “nelle pieghe del bilancio”.
Il successivo 11 settembre il “Ricciotti”, giornale dei repubblicani di Frosinone, così riferiva sul “transito” a Frosinone del re Umberto I diretto a Napoli, dove il colera infuriava in maniera spaventosa: “Il giorno 8 col treno delle 10 ant. fu di passaggio nella nostra Stazione S.M. il Re recatosi in visita ai colerosi a Napoli. Corsero ad ossequiarlo alla Stazione il Sindaco, la Giunta e molti cittadini con il Concerto in testa. Il treno reale passò come folgore, e i nostri cavalieri se ne rimasero con un palmo di naso!”. I maggiorenti di Frosinone, già delusi per la mancata sosta del Re nella stazione del capoluogo del Circondario, andarono su tutte le furie quando appresero che il convoglio reale aveva preferito fare sosta in quella di Ferentino dove Umberto I aveva ricevuto gli omaggi, evidentemente più graditi, delle autorità di quel paese. Lo stesso articolo annunciava, in quei giorni, che nei pressi della stazione ferroviaria di Frosinone, in seguito alle pressioni energiche della Commissione sanitaria, era stato impiantato un lazzaretto sotto la direzione del dottor Francesco Pellegrini e che vi era stato, anche, stabilito un servizio speciale di sorveglianza mentre, in tutta la città, veniva aumentato il personale per la “pubblica nettezza”.
Un’altra riunione del Consiglio comunale sulla questione del colera, anch’essa molto agitata, si tenne il 15 settembre. Dopo un’aspra discussione fra i consiglieri repubblicani e quelli monarchici sul testo di un ordine del giorno sul viaggio del Re a Napoli, toccò al consigliere Angelo Galloni accendere ancor più gli animi allorché rimproverò, con molta forza, il sindaco Tesori per aver permesso l’esposizione delle statue dei Santi Silverio e Ormisda all’interno della Cattedrale di Santa Maria, non tenendo in alcun conto delle conseguenze che ne potevano venire, dal lato igienico, dal momento che erano stati severamente proibiti i mercati, le scuole e ogni altra occasione di riunioni pubbliche. La risposta imbarazzata del Sindaco non fece che esasperare gli animi. Il consigliere repubblicano Alessandro Fortuna, da parte sua, denunciò che il parroco di San Benedetto, don Luigi Antonucci, aveva, più volte, sostenuto nelle sue prediche dall’altare che “l’epidemia era un castigo di Dio contro le colpe di quei rivoluzionari dei liberali” e aveva, anche, esortato il popolo “a far preghiere e solenni numerose riunioni in chiesa”. Fortuna riferì, infine, che don Antonucci aveva, pure, insinuato che “partiva dai Municipalisti l’opposizione ad esporre i patroni e che ciò era solo ottenibile con un contegno energico da parte della popolazione. Ciò - concluse il consigliere Fortuna - è istigazione alla guerra civile”.
L’episodio non ebbe, poi, alcun seguito anche perché a Frosinone, nonostante le precarie condizioni igienico-sanitarie generali, il colera non aveva fortunatamente fatto vittime: i provvedimenti comunali e il “cordone sanitario” avevano, evidentemente, funzionato per cui, alla fine di settembre, quando sembrò che la situazione di allarme fosse terminata, fu lo stesso Consiglio comunale a chiedere alla Sottoprefettura la revoca della soppressione dei mercati “stante il rapido e sensibilissimo decrescimento del ‘cholera’ in Napoli e dintorni”.
La fine dell’allarme colera impedì, tra l’altro, che facesse affari, anche a Frosinone, il sacerdote Giacomo Senati che nel suo bollettino “La propaganda della fede” annunciava di aver trovato “il vero rimedio contro il male al prezzo di L. 3 al cento per i grossisti e cent. 5 cadauno al dettaglio”. “Il Censore” del 26 ottobre spiegava in cosa consisteva il rimedio del prete: “Un abitino di tela da attaccare alla camicia con il Sacro Cuore vivo fiammante, fra una corona di spine, sormontata da una crocetta ed all’ingiro la parola: ‘FERMATI!’. Questa parola - concludeva il giornale - poi deve essere pronunciata parecchie volte al giorno, se si vuole che il colera resti fuori dal dazio, e in compenso di tanta fatica si avranno cento anni d’indulgenza accordati dalla buonanima di Pio IX”.
Alla fine di ottobre, dopo due mesi di sospensione, a Frosinone ripresero finalmente i mercati del giovedì e fu anche consentito lo svolgimento dell’annuale fiera di Santa Fausta alla Madonna della Neve. Ma il segnale più forte dell’avvenuto ritorno alla normalità fu dato, nei primi giorni del mese di novembre, dalla riapertura di tutte le scuole cittadine. All’inizio del 1885 il colera, che continuava a colpire duramente in molte parti d’Italia, fortunatamente restava molto lontano da Frosinone e la vita cittadina andava lentamente riprendendo il suo corso.
Comunque il persistere dell’epidemia colerosa, anche se lontana da Frosinone, teneva la popolazione e le autorità cittadine in uno stato di grande apprensione soprattutto per l’avvicinarsi della stagione calda. Ripresero, allora, e andarono avanti per tutto il 1885 le polemiche sviluppatesi già nell’anno precedente circa la costruzione dei “cessi” e la funzionalità dell’intero sistema fognario cittadino. Un nuovo giornale cittadino di tendenza massonica fondato proprio in quella estate del 1885 dall’avvocato Carlo Bianchini, “Il Progresso”, riportando la cronaca del Consiglio comunale del 1° settembre, scriveva che, di fronte all’ironica richiesta di diversi consiglieri: “Ora abbiamo i cessi… dunque si devono fare le fogne!”, lo stesso relatore della Commissione sanitaria, il consigliere Alessandro Fortuna, dovette riconoscere che i “cessi” fatti costruire d’ufficio dal Sindaco “siansi fatti a casaccio, senza un piano stabilito, senza coordinarli a un sistema di fogne”.
Nei primi giorni di novembre, mentre si continuava a considerare buona la situazione sanitaria di Frosinone, un altro giornale cittadino “La Vespa del Lazio”, di tendenza clericale, annunciava una vera e propria “invasione colerica” nella vicina Ripi con molti nuovi casi di contagio, in particolare nelle campagne dove i casolari abitati da persone ritenute infette venivano isolati dai Carabinieri. Questi fatti consigliarono alle autorità del Distretto militare di Frosinone di sospendere, dal 7 novembre, la chiamata alle armi dei giovani delle classi 1865 e 1866 per tutto il Mandamento. Il 12 dicembre lo stesso giornale annunciò che “finalmente anche tra noi è cessata l’infezione colerosa che pur tanto preoccupò e funestò il Comune. Il Lazzaretto è stato chiuso, sono riaperte le scuole e riattivato il mercato settimanale e la popolazione è ritornata tranquilla alle funzioni della vita”.
Alla fine del 1886 l’epidemia di colera, che per quasi tre anni aveva imperversato in quasi tutte le provincie italiane, finalmente era finita. Il contagio aveva colpito, in modo particolare, la città di Napoli dove, alla fine dell’allarme, si contarono circa 8.000 morti e altre migliaia nelle provincie vicine mentre a Frosinone, fortunatamente, non fu registrata alcuna vittima: avevano funzionato bene, evidentemente, tutte le misure di prevenzione adottate dalle autorità comunali con la collaborazione attiva di tutti i frusinati. [segue]
“Gli anni della ‘Spagnola’ e del primo dopoguerra (1918-1920)”
Se l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale era stata contrassegnata a Frosinone dalle distruzioni del grande terremoto marsicano del 1915, le ultime fasi del lungo conflitto coincisero con l’arrivo nella città, nei mesi di settembre e ottobre del 1918, di una nuova e tremenda epidemia, molto più grave di tutte le precedenti: la “Spagnola”. Il nuovo morbo rispetto al colera del 1884, che non aveva fatto vittime a Frosinone, fu molto meno documentato nonostante la “strage” che fece tra i frusinati in quanto, da tempo, erano scomparsi i giornali locali per la mancanza di carta e la partenza per il fronte dei direttori e dei redattori e, comunque, certe notizie non dovevano circolare per non rovinare, nei primi mesi del dopoguerra, il clima di esaltazione generale per la “grande vittoria”.
In realtà la “Spagnola”, che mieté almeno 50 milioni di vittime in tutto il mondo, non aveva niente a che fare con la Spagna; al morbo venne dato quel nome solo perché, non essendo la nazione iberica coinvolta nel conflitto mondiale in corso, i giornali di quel paese non soggetti alla censura militare furono i soli a informare che, da mesi, nei vari fronti di guerra fra i soldati ammassati nelle trincee, in condizioni igieniche terribili, si andava diffondendo una gravissima epidemia. Si venne poi a sapere che in realtà il virus della “Spagnola” aveva iniziato il suo corso nei campi d’addestramento delle truppe americane nel loro paese ed era arrivato in Europa nella primavera del 1918 con i soldati dell’esercito U.S.A. sbarcati in Francia per partecipare alle ultime fasi della guerra. Dalle trincee e dai campi di battaglia il contagio si era poi rapidamente diffuso, con il ritorno dei soldati alle loro case, in quasi tutti i paesi europei.
La malattia, che in Italia provocò la morte di circa 600.000 persone, per lo più bambini e giovani adulti (20-40 anni), si manifestava bruscamente “con lieve catarro dal naso” ed era caratterizzata “da senso di molestia alla gola, da stanchezza, da dolori vaghi in tutto il corpo”. Seguivano rapidamente “febbre alta preceduta da brivido e accompagnata da forte mal di capo, arrossamento degli occhi che mal sopportavano la luce, la tosse stizzosa, molte volte la perdita di sangue dal naso”. Al suo arrivo la pandemia “Spagnola” trovava le popolazioni in una condizione di debolezza e di prostrazione dovuta ai lunghi anni di guerra ed anche strutture sanitarie al collasso con buona parte dei medici, degli infermieri e dei farmacisti ancora al fronte mentre mancavano le medicine e i generi di prima necessità per i malati e i convalescenti.
L’epidemia, che arrivò a Frosinone sul finire dell’estate del 1918, trovò la città del tutto impreparata ad affrontare quell’emergenza in quanto le sue condizioni, soprattutto dal lato igienico, non avevano fatto molti progressi rispetto a quelle denunciate da giornalisti e scrittori, italiani e stranieri, che, verso la fine dell’800, l’attraversavano durante i loro viaggi tra Roma e Napoli. Uno di loro per esempio, Rolando Sarsi, sulla “Gazzetta Italiana Illustrata” così descriveva lo stato del centro urbano alla fine del secolo XIX: “La squallidezza di certe case in alcune strade è cosa da far strabiliare un abitante del ghetto, e mi pare di aver con ciò detto tutto. Si vedono certi covili, certe topaie appuntellate, sorrette da muri friabili come la creta, coperti da tetti con travi con tanto di pancia al di sotto e zeppi di creature che escono alla luce del giorno da buchi, da larghe screpolature che non si possono chiamare porte e quasi tutte le vie sono strette, affogate, sudice, coi muri scrostati, affumicati, luridi con i vicoli che colano ogni sorta d’immondezza”.
La città nei primi anni del ‘900 si presentava ancora nelle stesse condizioni: a poco erano serviti i provvedimenti adottati per risolvere i problemi relativi all’igiene cittadina a partire dall’approvvigionamento idrico del centro urbano. L’impianto della Macchina della Fontana di Via Mola Nuova, già dall’indomani della sua installazione, aveva cominciato ad avere problemi per i frequenti guasti tecnici al macchinario sollevatore e al canale portatore e per i danni provocati al ponte-acquedotto e alla conduttura dalle frequenti alluvioni del Cosa. La Macchina poi, spesso rimaneva ferma, anche per lunghi periodi, a causa delle secche estive del fiume e delle sorgenti per cui il mancato arrivo dell’acqua nella città rendeva inutilizzabili le fontane, i lavatoi e gli abbeveratoi e, soprattutto, impossibile ogni intervento efficace per il funzionamento del sistema delle fognature e il lavaggio delle strade.
Anche quando l’acqua corrente riusciva ad essere pompata in città essa costituiva, comunque, un serio problema per la salute cittadina in quanto non sempre risultava potabile alle periodiche analisi batteriologiche. La già pesante situazione era aggravata dall’inesistenza di una efficiente rete fognante e ancora dall’assenza, nella maggior parte delle case, dei “cessi” mentre le decine di orinatoi pubblici nelle strade e nelle piazze del centro solo raramente venivano lavati e disinfettati. Quelle condizioni della città, che si protrassero inalterate ancora nei primi decenni del ‘900, erano la causa delle periodiche esplosioni delle più varie malattie infettive, con un bilancio complessivo di decine di morti per la massima parte bambini: negli anni tra il 1901 e 1904 e, poi, nel corso del 1910 ripetuti contagi riportarono all’ordine del giorno la necessità di istituire in città un ospedale per i “tignosi”. Sempre nel 1910 e ancora nel 1911, quando in tutta Italia si diffuse una nuova epidemia di colera, gli amministratori comunali con una serie di misure preventive riuscirono, come era già avvenuto nel 1884, a impedire che Frosinone dovesse contare vittime tra i suoi cittadini.
La situazione rimase immutata negli anni della vigilia della prima guerra mondiale fino a che tutta la città, proprio negli ultimi mesi del 1918, rimase sconvolta per i lutti provocati dalla “Spagnola” che praticamente colpirono ogni nucleo familiare e per le difficoltà create dai provvedimenti di chiusura delle scuole, degli uffici pubblici e delle chiese e di sospensione del mercato del giovedì. Il cimitero comunale, intanto, si andava rivelando del tutto insufficiente ad accogliere un numero così elevato di defunti tanto che si dovettero costruire in tutta fretta, addossati alla chiesa e ai muri di cinta, i primi loculi a più piani per accogliere le salme dei colpiti dall’epidemia insieme a quelle dei soldati che nelle stesse settimane venivano riportate a Frosinone dai fronti di guerra. Si lamentò ad un certo punto anche la mancanza di legname per la costruzione delle bare per le vittime dell’epidemia e si dovette ricorrere all’abbattimento dei cipressi dello stesso cimitero comunale per ricavarne il materiale necessario.
In quei mesi tutto il personale del Comune fu impegnato ad assistere in ogni modo la popolazione; i salariati, in particolare, vennero impiegati nella costruzione di un lazzaretto di baracche di legno al Borgo S. Martino, nei pressi dell’Ospedale civico, e anche al ripristino, nella parte bassa della città, di alcuni vecchi casali isolati che già in passato erano stati utilizzati come lazzaretti per ricoverare i colpiti dalle ricorrenti epidemie. Il Comune investì, nelle settimane successive, molte risorse per garantire la salute cittadina con pulizie straordinarie “post-spagnola” del centro urbano e l’acquisto di calce per la disinfezione della Caserma “Guglielmi” e del Distretto militare.
Quando il 4 novembre arrivò in città la notizia della fine della guerra mondiale, annunciata dalle campane della cattedrale di S. Maria suonate a festa, fu accolta, naturalmente, con grande sollievo dalla popolazione frusinate che, però, debilitata dalle privazioni e dai lutti degli anni di guerra e spossata dalla “Spagnola”, si fece coinvolgere relativamente nelle “celebrazioni della Vittoria” e nelle cerimonie che si susseguivano in Piazza della Libertà per la consegna delle croci di guerra alle vedove e agli orfani dei Caduti. Quegli “assembramenti patriottici”, in aperta contraddizione con quanto prescritto dalle autorità sanitarie nazionali per evitare contagi causati di ogni genere di affollamento, furono all’origine, a Frosinone come in tutta Italia, di una “seconda ondata” dell’epidemia e della ripresa della mortalità.
Il 20 dicembre 1918 si riunì, in sessione straordinaria, il Consiglio comunale al quale parteciparono 16 consiglieri, finalmente in numero legale come non avveniva dal lontano 7 agosto 1915. Il sindaco Ferrante, aprendo i lavori, così si rivolse ai consiglieri: “On. Colleghi: mi gode sommamente l’animo nel vedere qui riuniti tutti a rendere gli omaggi di devozione e di amore che la Città deve ai gloriosi suoi martiri della guerra. Prendo con vera commozione la parola e vi chiedo l’inversione dell’ordine del giorno e di consacrare questa seduta solenne esclusivamente ai nostri concittadini caduti. L’Amministrazione gelosa custode di tali sentimenti e dell’alto patriottismo che fu onore sempre di Frosinone - disse ancora il Sindaco - crede necessario che un Monumento ricordi gli illustri caduti, attesti la immutabile riconoscenza cittadina, sia monito alle generazioni che godono nella pace e nel lavoro i frutti di tanti sacrifici e di tanta gloria”.
Prima di chiudere la seduta nel corso della quale nessun cenno venne fatto alle penose condizioni delle famiglie frusinate colpite dalla “Spagnola”, il sindaco propose la realizzazione di un Monumento ai Caduti di Frosinone della Grande guerra da sistemare al “Giro dei cavalli”. Per l’esecuzione dell’opera, che il Sindaco suggerì di affidare all’arch. Cesare Bazzani, era necessario lo stanziamento di un primo fondo di almeno 7.500 lire mentre una somma analoga era da raccogliersi fra la cittadinanza. Il Sindaco informò pure che la famiglia del compianto Norberto Turriziani aveva chiesto al Comune di poter collocare, a proprie spese, una statua, anch’essa opera dell’arch. Bazzani, nel largo già intitolato al Caduto. Il Consiglio con un applauso caloroso approvò entrambe le proposte.
Nei giorni successivi cominciarono ad arrivare i primi segnali del ritorno a una qualche normalità della vita cittadina dopo la cessazione dello stato di guerra con il ripristino completo dell’illuminazione elettrica che era stata limitata sin dall’ottobre del 1916 e con l’epidemia che sembrava avviarsi al suo superamento invece si riaffaccerà in città nel corso del 1919 e del 1920 facendo nuove vittime. Intanto un primo bilancio, effettuato alla fine del 1918, aveva fatto registrare a Frosinone un numero di morti addirittura superiore a quello dei soldati caduti nei quattro anni di guerra: furono, infatti, più di 300, fra cui oltre 100 bambini di età inferiore ai sei anni, a morire fra il settembre e l’ottobre di quell’anno a causa della “Spagnola” portando la mortalità a Frosinone da una media annuale di 250 decessi a un picco, nel 1918, di 546 su una popolazione complessiva di non più di 13.000 abitanti. Le vittime corso di tutta la guerra furono invece 191: 34 erano morti nel 1915, 55 nel 1916, 36 nel 1917, 54 nel 1918 e altri 12 negli anni immediatamente successivi in conseguenza di ferite o malattie mentre tra quelli che riuscirono a tornare si contarono a centinaia i feriti, i mutilati e gli ammalati.
Ancora per diversi anni le salme di militari di Frosinone, caduti nei vari fronti di guerra, dopo essere stati finalmente identificati, continuarono ad arrivare alla Stazione ferroviaria di Frosinone per essere avviate, dopo una notte di permanenza nella vicina chiesa della Sacra Famiglia, al Cimitero comunale per essere sepolti assieme alle vittime degli ultimi contagi della “Spagnola”, la più grande delle pandemie della storia seconda solo alla “peste nera” del 1300.