“LE PRIME ELEZIONE COMUNALI DI FROSINONE ITALIANA - (13 NOVEMBRE 1870)”
Il 13 settembre del 1870, a mezzogiorno, il generale Diego Angioletti, comandante delle truppe italiane entrate a Frosinone dopo aver risalito l’attuale Viale Napoli, stabili il suo quartiere generale nel Palazzo della Delegazione Apostolica (attuale Prefettura) da dove, la sera precedente, era partito, in tutta fretta, in direzione di Roma il delegato pontificio monsignor Pietro Lasagni. Una settimana dopo, il 20 settembre, l’esercito italiano, dopo aver accerchiato Roma e aperta a cannonate una breccia a Porta Pia, entrava nella città eterna ponendo così fine al secolare potere temporale dei Papi.
Intanto a Frosinone il colonnello del 32° Reggimento di Fanteria, G. Lipari, che aveva assunto dal 14 settembre l’ufficio del Comando militare della provincia di Frosinone, il 22 settembre insediava nel palazzo della ormai ex Delegazione apostolica, una Giunta comunale provvisoria composta dai “patrioti” Nicola Marchioni, Filippo Simeoni e Giuseppe Sodani che resteranno in carica fino alle elezioni amministrative già previste per il mese di novembre. Il 2 ottobre, intanto, i frusinati vennero chiamati alle urne per pronunciarsi sull’annessione della città al Regno d’Italia: la consultazione interessò una percentuale di iscritti alle liste elettorali pari a circa il 25 per cento della popolazione cittadina mentre gli elettori effettivi risultarono l’82,41 per cento di essi, cioè sui 2559 iscritti furono in 2109 ad esprimersi, all’unanimità, per il “Sì” all’adesione al Regno d’Italia.
Il 13 novembre, a due mesi esatti dalla liberazione si tennero le prime elezioni per eleggere il Consiglio comunale di Frosinone “italiana”: gli elettori iscritti nelle liste per l’amministrazione cittadina erano circa 650 a fronte dei 2559 per quelle del Plebiscito: la notevole differenza era dovuta ai requisiti più fortemente selettivi richiesti: 21 anni d’età, saper scrivere almeno il proprio nome e pagamento di imposte dirette e comunali per non meno di 25 lire.
Le elezioni comunali, che si svolsero in maniera del tutto tranquilla, videro, alla fine, eletti Luigi Ciceroni, Leopoldo Cioccolani, Nicola De Angelis, Giovanni Battista De Santis, Domenico Diamanti, Giovanni Battista Grappelli, Carlo Kambo, Nicola Marchioni, Giacinto Narducci, Vincenzo Orlandi, Vincenzo Passerini, Eugenio Pesci, Gaetano Pesci, Francesco Ricci, Filippo Simeoni, Giuseppe Sodani, Francesco Tagliaferri, Cesare Tesori, Cesare Troccoli e Filippo Turriziani. Nessuno degli eletti era in qualche modo riconducibile al precedente regime: il solo Nicola Marchioni, che aveva già fatto parte dell’ultimo Consiglio comunale dell’epoca pontificia, tornò a essere candidato ed eletto perché, clandestinamente, negli ultimi anni del potere pontificio, aveva “da impiegato delle Poste in questa qualità resi dei buoni servigi al partito d’azione”.
A Frosinone, a differenza degli altri centri del circondario, il vecchio ceto dirigente legato al potere pontificio non aveva partecipato alle elezioni amministrative e, quindi, il primo Consiglio comunale risultò composto, esclusivamente, da esponenti democratici e liberali che, in passato, per le loro battaglie contro il regime clericale e la loro partecipazione alle imprese garibaldine e ai moti mazziniani, avevano conosciuto le prigioni pontificie o erano stati costretti ad anni di esilio o all’emarginazione dalla vita politica e amministrativa cittadina.
Quello di Frosinone fu certamente un risultato anomalo rispetto al resto del Circondario e dell’intero Lazio dove, eccetto a Roma e in poche altre amministrazioni, i clericali si erano imposti in tutti i Comuni. Ma l’omogeneità politica dei venti consiglieri di Frosinone era del tutto apparente in quanto erano presenti fra essi, oltre a forti rivalità personali, anche differenti opzioni politiche. Il nuovo Consiglio comunale risultò diviso, infatti, secondo la stessa classificazione riportata nelle carte prefettizie, in liberali-progressisti e liberali-moderati, che trovarono nelle due personalità più forti fra gli eletti nel Consiglio, Domenico Diamanti e Francesco Ricci, i loro punti di riferimento sia politici che amministrativi durante tutti i primi anni di vita municipale della città dopo l’unità d’Italia. Domenico Diamanti guiderà per anni la maggioranza consiliare mentre il Ricci capeggerà la minoranza: i seguaci del primo erano fra quelli che più coerentemente e costantemente avevano combattuto il potere temporale della Chiesa fino, in non pochi casi, a conoscere il carcere e l’esilio, mentre gli altri, a volte, erano scesi a compromessi con le autorità pontificie.
All’indomani del voto amministrativo del 13 novembre del 1870 la maggioranza dei consiglieri comunali di Frosinone era orientata a chiedere al Commissario regio Rinaldo Albini di segnalare, per la nomina regia a primo sindaco della città dopo l’unità d’Italia, l’avvocato Domenico Diamanti, nativo di Veroli ma cittadino frusinate d’elezione, che era appena rientrato dal suo secondo esilio in Egitto. La divisione del Consiglio comunale in due schieramenti contrapposti, progressisti e moderati, rendeva però difficile quella nomina tanto che il Commissario regio così scriveva, il 9 dicembre del 1870, in un suo lungo rapporto alla Luogotenenza: “Il Consiglio di questo Comune è diviso malauguratamente in due partiti. Quello che prevale ha desunto dal suo seno la Giunta municipale, cosicché la somma degli affari trovasi concentrata nelle mani di questa maggioranza. Questa desidera a suo Sindaco il Consigliere Domenico Diamanti che fu già candidato alla Deputazione nazionale, vivamente sostenuto in questa città. Del partito contrario - continuava Albini - sarebbe sopra ogni altro adatto a simile ufficio il Consigliere Francesco Ricci, Consigliere Provinciale, persona fornita di pratiche cognizioni amministrative ed onesta, ma è certo che il sig. Ricci dovrebbe lottare con moltissime difficoltà, che deriverebbero dal poco accordo che esisterebbe specialmente tra lui e la Giunta municipale, e da questo disaccordo rimarrebbe paralizzata l’opera del Sindaco e ritardati i molti progressi morali e materiali che sono indispensabili per questo paese”.
Il Commissario affermava, a conclusione del suo rapporto, che egli non avrebbe avuto nessuna difficoltà a proporre per sindaco Diamanti perché molto convinto che lo stesso “volgerebbe a vantaggio del suo Comune quell’ambizione che lo faceva aspirare all’ufficio di Deputato di questo collegio. Oltre a ciò - scriveva ancora Albini - al sig. Domenico Diamanti non si può negare amore del suo paese ed esperienza acquistata nel suo lungo esilio, deve essere tra quelli maggiormente convinti della necessità di molti sostanziali cambiamenti nelle cose di questo Comune, convinzione che non sempre prevale negli animi di coloro, che si abituarono allo stato di cose da tanto tempo esistente”.
Nonostante tutte queste valutazioni positive nei riguardi del progressista Diamanti, il commissario Albini, consapevole che una scelta del genere avrebbe offeso la suscettibilità dei consiglieri comunali della minoranza moderata e, soprattutto, incontrato l’ostilità del loro esponente più importante, Francesco Ricci, cercò un’altra persona da indicare a primo cittadino di Frosinone fra alcuni consiglieri comunali come Luigi Ciceroni e Filippo Turriziani per primi e, poi, Carlo Kambo e Nicola De Angelis ma tutti i suoi tentativi non ebbero alcun risultato.
Alla metà di gennaio del 1871, Frosinone era ancora senza sindaco e questo fatto stava determinando malumori e proteste nella città anche se il Commissario regio cercava, in qualche modo, di sdrammatizzare la situazione: “Ho sentito - riferì Albini in un altro suo rapporto - muovere lamenti perché si ritardi la nomina del Sindaco di questo Comune. Sebbene io abbia delicatamente dimostrato che la mancanza del Sindaco non può e non deve recar pregiudizio al buono e regolare andamento dell’Amministrazione comunale, essendo che la Legge ampiamente provvede alla evenienza di tale mancanza, e per quel difetto non arresta l’importante lavoro assegnato dalla Legge alla rispettiva competenza della Giunta Municipale e del Consiglio Comunale”.
Alla fine il Commissario regio, pur essendo politicamente schierato con la parte più moderata del Consiglio, dovette riconoscere che solamente Domenico Diamanti avrebbe potuto avere il gradimento di tutta la Giunta municipale, della gran parte degli eletti e della maggioranza dei frusinati. Proprio per queste ragioni Albini, alla fine, ritenendo che l’avvocato Diamanti fosse la persona più adatta a guidare l’Amministrazione comunale così comunicava alla Luogotenenza romana: “Per dare esecuzione alle deliberazioni del Consiglio a questo riguardo, trattandosi di dover preparare progetti, e iniziare pratiche per un prestito, occorre l’opera di un Sindaco energico, beneviso alla maggioranza, non legato da idee troppo grette, perché insieme al far bene occorre anche far presto, onde supplire ai radicali difetti che si verificano in questa città
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Finalmente, alla fine del mese di gennaio del 1871, Domenico Diamanti, una delle figure più importanti del Risorgimento italiano espresse dalla Ciociaria, ricevette la nomina regia a sindaco di Frosinone. Così sarà tratteggiata, qualche tempo dopo, la figura del Diamanti da parte di Aristide Salvatori sul suo giornale, “Il Lampo”: “È una bella personalità, uno tra’ megliori cittadini che vanti il nostro Circondario; uno di quei pochi insomma che affermassero con ventidue anni di esilio e con una lunga serie di fatti operati, il suo culto alla patria, il suo amore all’umanità. Non isfornito di pratiche cognizioni amministrative, onesto fino allo scrupolo, esso è un uomo di cui ogni municipio dovrebbe onorarsi avendolo capo”.
 
DOMENICO DIAMANTI  PRIMO SINDACO DI FROSINONE ITALIANA
Domenico Diamanti, primo sindaco della città dopo la fine dello Stato pontificio e cittadino d’adozione di Frosinone, era nato a Veroli il 10 marzo 1812 da Erasmo e Maddalena Cialli.
Dopo essersi “laureato” a 16 anni in Eloquenza e Filosofia nella città natale, si trasferì a Roma per studiarvi Giurisprudenza. Durante i primi anni di Università si affiliò alla “Giovine Italia” entrando in relazione con i più attivi mazziniani della capitale. Fu tra i fautori dei moti rivoluzionari del 1831 a Roma, per cui fu arrestato e scontò diversi mesi di carcere. Appoggiò poi i moti romagnoli di Genova e della Savoia del 1843-44.
Nel 1848 si stabilì a Frosinone con la moglie Carolina Morelli, dalla quale aveva avuto un figlio, Emilio nel 1839, e qui esercitò la professione legale. Nello stesso anno con il Battaglione di volontari “Campano” (o “Frosinonese”), da lui stesso organizzato insieme al frusinate Giampietro Guglielmi, combatté nella prima guerra d’indipendenza come capitano della 4a Compagnia del Battaglione a Cattolica e alla Montagnola, rimanendo ferito a un ginocchio. Prese anche parte in quell’anno alla sommossa popolare che riconquistò Bologna occupata dagli austriaci del generale Welden.
Tornato a Frosinone nel 1849, fu eletto deputato alla Costituente romana in rappresentanza della provincia di Frosinone con 2.806 voti e fissò la sua residenza a Roma, dove fu tra quelli che con la scure atterrarono la porta del ghetto ebreo. Il Triunvirato gli affidò il Commissariato straordinario con i pieni poteri per la provincia di Campagna e Marittima e il compito di organizzatore di corpi armati per la difesa della Repubblica romana. Combatté a Roma e a Velletri rimanendo più volte ferito. Caduta la Repubblica romana prese la strada dell’esilio e si rifugiò prima a Smirne (Turchia) e poi ad Alessandria d’Egitto, dove rimase dal 1849 al 1867, lontano dalla moglie e dal figlio. La reazione del potere pontificio si abbatté, allora, proprio sui suoi familiari rimasti a Frosinone fino a quando la moglie e il figlio, scampati alla distruzione della loro casa per opera di popolani istigati dal clero, raggiunsero il capo famiglia in Egitto.
Nei luoghi del suo esilio Diamanti prima svolse lavori umilissimi per poi darsi all’arte medica e alla professione di avvocato. Intanto si adoperava per costituire comitati di emigrazione a Smirne, Atene, Costantinopoli, Siwa e Alessandria d’Egitto, allo scopo di aiutare gli emigrati politici italiani. La sua attività fu sempre osteggiata, però, dalla polizia austriaca. Durante tutti gli anni del suo esilio Diamanti si tenne sempre in contatto con i patrioti Nicola Fabrizi di Modena, Adriano Lemmi di Livorno, ma soprattutto con Mazzini e Garibaldi dei quali godé l’amicizia e la stima. In quegli stessi anni Diamanti entrò nella Massoneria tanto che, nel 1866, risultava aver già ricoperto la carica di Maestro Venerabile della Loggia massonica “Nuova Pompeja” di Alessandria d’Egitto.
Rientrato in Italia nel 1867 si fermò a Firenze per poi raggiungere Sora dove organizzò, a sue spese. un corpo di volontari impegnando i beni che possedeva in Frosinone per partecipare allo sfortunato tentativo garibaldino di quell’anno per la liberazione di Roma e del Lazio dal potere temporale dei papi. Combatté contro le truppe pontificie a Vallecorsa e sulle montagne di Trisulti per tornare, dopo la sconfitta di Mentana, per la seconda volta in esilio ad Alessandria d’Egitto.
Tornato in Italia subito dopo la liberazione di Roma, Diamanti fu accolto a Frosinone con grandi manifestazioni di simpatia da parte della cittadinanza che lo volle consigliere comunale della città diventata finalmente italiana. Candidato alle elezioni politiche del 1870 e del 1874 venne quasi unanimemente votato a Frosinone, ma fu battuto, per pochissimi voti, nel risultato complessivo del collegio elettorale dal verolano Giovanni Campanari.
Diamanti, che era rimasto vedovo, con la nuova moglie di Frosinone Apollonia Tagliaferri, dalla quale aveva avuto due figli, tornò, questa volta volontariamente, in Egitto alla fine del 1876. Ad Alessandria d’Egitto riprese la sua attività di avvocato e ricevette anche la cittadinanza onoraria. Qui morì all’età di 69 anni, il 3 marzo del 1881 assistito dalla moglie e dal figlio Emilio. Fu sepolto nel Cimitero Latino di Alessandria dopo solenni funerali che videro la presenza del Viceré d’Egitto, del Corpo diplomatico e di tutta la comunità italiana.
 
LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL 15 LUGLIO 1877 E L’INIZIO DELL’ERA GRAPPELLI
A sette anni di distanza dal voto amministrativo del novembre 1870 la Prefettura di Roma, con decreto dell’11 aprile 1877, scioglieva il Consiglio comunale di Frosinone e fissava per il 15 luglio le nuove elezioni per il suo primo rinnovo generale. Proprio in vista di quel voto, un gruppo di personaggi di primo piano di Frosinone e del Circondario, fra i quali Girolamo Moscardini, Nicola De Angelis, Giovanni Battista Grappelli, Giuseppe Galloni, Alessandro Angelini, Giuseppe Sodani e Aristide Salvatori, aveva fatto apparire, il 19 maggio, sulle pagine del giornale locale di tendenza repubblicana, “Il Lampo”, il testo di un manifesto rivolto agli elettori del Circondario. “L’esperienza di sette anni - diceva l’appello - ci ha dimostrato purtroppo luminosamente come l’inoperosità dei buoni, dia sovente agio gli speculatori d’invadere le cariche pubbliche, per servirsene a scopo di privato interesse. L’esperienza ci insegna ancora come l’associazione sia una delle prime forze in un popolo libero, e come da essa derivino tutti quei beni, tutti quei miglioramenti sociali, che costituiscono la vita delle nazioni”. Alla fine dell’appello i firmatari, costituitisi in Comitato promotore, invitavano tutti gli elettori a “gettare le basi di una grande Assemblea Elettorale permanente pel Circondario di Frosinone, al fine di influire efficacemente sulla scelta di coloro che debbono rappresentare e garantire gli interessi del Pubblico nei corpi tutti amministrativi e legislativi del Comune, della Provincia e della Nazione.
L’iniziativa era chiaramente rivolta a limitare le interferenze dell’affarista ceccanese Filippo Berardi che, da anni, riusciva a determinare, con il suo forte potere economico, le scelte di quasi tutte le amministrazioni comunali della Valle del Sacco, compresa quella di Frosinone. Da parte sua, in quella vigilia elettorale, il sottoprefetto Giannelli affermava, il 9 luglio, in un suo rapporto alla Prefettura di Roma che l’elettorato del Circondario “comincia ad essere diviso con quei colori con cui si distinguono i due partiti del Parlamento cioè quelli che sono favorevoli al Ministero e quelli che lo combattono. “A tale divisione - continuava il Sottoprefetto - hanno potentemente contribuito i due deputati Signori Cav. Indelli e Cav. Martinelli. Quanto a Frosinone, come nella maggior parte dei Comuni, gli eletti non si divideranno sopra questioni politiche o amministrative, ma voteranno semplicemente col cuore di amici o di nemici dei Deputati suddetti).
Per le elezioni amministrative del 15 luglio vennero presentate a Frosinone due liste: la prima guidata dal sindaco “facente funzioni” uscente Giovanni Battista Grappelli, che aveva sostituito Domenico Diamanti dimissionario dal novembre del 1875, e la seconda dall’avvocato Filippo Simeoni. Entrambi gli schieramenti si richiamavano genericamente alle idee liberali, anche se non mancavano al loro interno diversi candidati provenienti dal mondo cattolico cittadino. I risultati di quelle elezioni, dopo una campagna elettorale abbastanza vivace, videro la vittoria della lista “municipale” di Grappelli. Così “Il Lampo” dette conto del risultato finale: “La lista municipale composta di un terzo da clericali e due terzi da liberali con una maggioranza di voti singolare contro l’altra lista contrapposta con meno clericali e persone d’impegno e capacità; ma parte per imperizia, parte per difetto d’influenza sugli elettori rimase sconfitta. Ci auguriamo che questa lezione serva da esempio a questi bravi cittadini e che un’altra volta riescano nel loro intento. Comunque siasi non si può che inneggiare alla votazione di domenica scorsa”.
Qualche giorno dopo il voto, il 23 luglio, nella sede municipale di Palazzo Ciceroni, s’insediarono, sempre secondo “Il Lampo”, una dozzina di “veri liberali”, sei “veri clericali”, mentre gli altri dodici consiglieri erano classificati come “4 malve clericali e 8 malve liberali”. I consiglieri che risultarono eletti, che rispetto alle precedenti amministrative erano aumentati da venti a trenta, furono Giuseppe Borsa, Nicola Bouchard, Paolo Bracaglia, Luigi Ciceroni, Leopoldo Cioccolani, Nicola Crescenzi, Nicola De Angelis, Giovanni Battista De Santis, Domenico Diamanti, Filippo Dori, Giulio Gabrielli, Gaetano Galloni, Vincenzo Giansanti, Giovanni Battista Grappelli, Domenico Antonio Guglielmi, Carlo Kambo, Nicola Marchioni, Silverio Marchioni, Giacinto Narducci, Ernesto Paradisi, Vincenzo Passerini, Ciro Pesci, Francesco Ricci, Giacinto Scifelli, Filippo Simeoni, Giuseppe Sodani, Cesare Tesori, Cesare Troccoli, Filippo Turriziani e Domenico Vespasiani. Giovanni Battista Grappelli continuò, in attesa della nomina regia, ancora per qualche tempo a svolgere il compito di Sindaco “facente funzioni”, capeggiando la stessa Giunta eletta all’indomani del voto del 17 luglio di cui facevano parte i cinque assessori effettivi Luigi Ciceroni, Giuseppe Borsa, Nicola Marchioni, Giuseppe Sodani e Francesco Ricci).
Giovanni Battista Grappelli ricevette il decreto di nomina reale a sindaco di Frosinone il 3 febbraio 1878, ben sei mesi dopo le elezioni amministrative che lo avevano visto vincitore mentre, a quella data, la composizione della sua Giunta venne modificata, seppur di poco, con Filippo Dori al posto di Giuseppe Borsa. Al cambiamento in senso conservatore del Consiglio, determinatosi con l’elezione di oltre un terzo di consiglieri “clericali”, era corrisposta una Giunta quasi interamente composta dagli elementi più moderati dello schieramento liberale comunque vicini agli ambienti cattolici cittadini. Se ancora per qualche anno saranno presenti nella Giunta alcuni liberali esenti da compromissioni con il passato potere pontificio, come Nicola Marchioni, Giuseppe Sodani e Filippo Turriziani, i rimanenti membri dell’esecutivo, a cominciare dai due uomini più rappresentativi, cioè lo stesso Grappelli e Francesco Ricci, più volte nella loro vita erano scesi a patti con la Delegazione apostolica di Frosinone. Infatti, a differenza di Domenico Diamanti, che aveva saputo affrontare per le sue idee venti anni di esilio in Turchia e in Egitto, Grappelli e Ricci erano stati entrambi “perdonati” per la loro partecipazione al Governo provvisorio del 1867 e, dopo pochi mesi di “espatrio” al di là del Liri (tra Sora e Arce), una volta tornati a Frosinone poterono riprendere tranquillamente a gestire i loro interessi di grossi possidenti.
La svolta conservatrice al Comune arrivò al suo pieno compimento il 21 dicembre del 1880 con la nomina di una Giunta interamente formata da liberali moderati e da cattolici come Francesco Ricci, Filippo Dori, Gaetano Galloni, Luigi Ciceroni, Vincenzo Giansanti e Carlo Kambo. Nessuno si meravigliò, allora, se “La Falce”, giornale “internazionalista” di Frosinone dagli accenti fortemente anticlericali, in uno dei suoi primi numeri ebbe a scrivere, riferendosi a Grappelli e Ricci ma anche a Filippo Dori e Carlo Kambo che: “Gli ex barbacani del ’61 e i firmatari dell’obolo di S. Pietro del ’67 non hanno voluto smentire il fervido amore per le somme chiavi”. Rispetto alle numerose opere pubbliche volute dal sindaco Domenico Diamanti, come la costruzione del Cimitero comunale a Colle Cottorino e della Palazzata Berardi con il Teatro Isabella lungo la Via Nova, l’attività del primo mandato a sindaco di Grappelli non si caratterizzò per particolari interventi nel campo dei lavori pubblici e dei servizi, il che veniva motivato, costantemente, da presunte preoccupazioni di bilancio.
Per le condizioni del bilancio comunale e per la mancanza di proprie risorse da parte del Comune, Grappelli aveva fatto ricorso, già all’inizio della sua attività di sindaco “facente funzioni”, a un primo mutuo di 30.000 lire presso la Cassa dei Depositi e dei Prestiti per il ripianamento dei debiti pregressi dell’Amministrazione. Il 6 gennaio del 1879 venne richiesto un altro prestito, per 100.000 lire sempre alla Cassa dei Depositi e dei Prestiti, finalizzato all’esecuzione di opere di pubblica utilità per dare occasioni di lavoro sia agli abitanti del centro cittadino che a quelli della campagna afflitti dalla disoccupazione. Il prestito fu utilizzato per la costruzione del muro di cinta del Cimitero, per la riparazione della Via Garibaldi danneggiata in più parti da alcuni cantieri e per la realizzazione di una nuova strada di collegamento tra Via Garibaldi e il Piazzale delle Grazie (l’attuale Via Aonio Paleario) in previsione della collocazione della futura sede del Distretto militare nella struttura dell’ex convento delle Grazie). Con parte di quei fondi furono eseguiti, anche, i lavori per la costruzione di marciapiedi nelle strade del Borgo San Martino, per sistemare con selci neri tutta la Via Garibaldi, per realizzare una strada tra il Casino Ricci e Selva dei Muli e, infine, per riparare la strada detta di Ceccano.
 
GIOVANNI BATTISTA GRAPPELLI SINDACO PER QUASI TRENTA ANNI
Giovanni Battista Grappelli, secondo sindaco di Frosinone dopo l’annessione della città al Regno d’Italia e che ricoprì la carica per quasi trent’anni, era nato a Frosinone il 14 settembre 1838 e vi morì il 28 aprile 1915. Appartenente a un’antica famiglia della piccola nobiltà papalina di proprietari terrieri, in gioventù compì gli studi universitari a Roma dove, nel 1860, venne arrestato per la sua partecipazione a manifestazioni di carattere liberale e rinchiuso nelle prigioni di San Martino a Roma. Perdonato dal pontefice Pio IX, Grappelli tornò a Frosinone per dedicarsi alla conduzione dell’azienda agricola di famiglia per poi, nel 1867, essere esiliato dalla sua città per aver appoggiato il tentativo di Garibaldi di liberare le province laziali dal dominio pontificio e, dopo una breve permanenza al di là del confine del Liri, rientrò a Frosinone avendo ottenuto, ancora una volta, il perdono papale.
Grappelli tornò all’attività politica solo all’indomani dell’annessione di Frosinone al Regno italiano e fu eletto consigliere comunale già nelle prime elezioni amministrative del novembre del 1870. Assessore sin dalla costituzione della prima Giunta comunale dopo la partenza per l’Egitto di Domenico Diamanti, Giovanni Battista Grappelli occupò, come facente funzioni, il suo posto fino alle elezioni comunali del 15 luglio 1877. Il 3 febbraio del 1878 il Grappelli fu nominato, per la prima volta, sindaco di Frosinone e lo restò fino al 23 dicembre 1883 quando venne sostituito da Cesare Tesori che fu a capo del Comune fino alla fine del 1887. Dopo sette mesi di gestione prefettizia, Giovanni Battista Grappelli il 15 gennaio del 1888 tornò alla guida dell’Amministrazione comunale e lo rimarrà, ininterrottamente, fino al 10 agosto 1906. Con Grappelli si determinò un certo cambiamento nella conduzione della vita amministrativa cittadina rispetto agli anni di Diamanti sindaco: nei primi sei anni della sua guida del Comune si limitò, infatti, alla normale amministrazione mostrandosi più attento alle ragioni di bilancio che a quelle degli investimenti. Nella seconda parte del suo lungo sindacato, invece, Grappelli si mostrò più sensibile alle esigenze del ceto popolare della città mirando a una più giusta ripartizione delle tasse e all’avvio di opere pubbliche per alleviare la cittadinanza dalla forte disoccupazione.
Fra le realizzazioni più importanti di Grappelli si ricordano l’impianto del Distretto militare e la relativa strada di accesso (l’attuale via Aonio Paleario) e l’ampliamento del Cimitero comunale. Decisivo fu il suo apporto per ottenere il finanziamento da parte dell’Amministrazione provinciale di Roma per la costruzione del nuovo Ospedale civico e per la costituzione a Frosinone del Consorzio Agrario provinciale. Grappelli fu anche molto vicino alla “Società musicale”, di cui fu Presidente per molti anni, sobbarcandosi spesso delle spese per l’acquisto degli strumenti necessari alla Banda cittadina. Sebbene monarchico e liberale di tendenza moderata, Grappelli si schierò, in qualche occasione, con i lavoratori e con le loro associazioni, a partire dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso di cui fu Presidente onorario negli ultimi anni del secolo. Grappelli, che fu anche Consigliere provinciale di Roma per il mandamento di Frosinone-Torrice-Ripi, ininterrottamente, dal 1877 al 1915, data della sua morte, difese più volte l’autonomia del Comune dalle intromissioni prefettizie.
 
DAL SINDACO CESARE TESORI ALLE ELEZIONI GENERALI DEL 3 NOVEMBRE 1889
Se i primi anni dell’Amministrazione comunale guidata da Giovanni Battista Grappelli furono, tutto sommato, tranquilli così non si può dire per tutto il periodo dal 1881 al 1888 anno delle nuove elezioni amministrative generali. A creare continui problemi contribuirono innanzitutto i rinnovi annuali del quinto dei consiglieri comunali così come previsto dalla legge elettorale dell’epoca. Una situazione di perenne campagna elettorale e di continui cambiamenti nella composizione della giunta.
Si cominciò il 17 luglio 1881 quando gli elettori vennero chiamati a sostituire sei consiglieri comunali. Il fatto nuovo di quel voto fu il tentativo di rompere il monopolio politico monarchico-liberale da parte di un gruppo di studenti e di artigiani di orientamento nettamente repubblicano e internazionalista (socialisti e anarchici) che per la prima volta presentavano dei loro candidati. La voce del gruppo era il giornale “L’Amico del Popolo”, diretto da Alessandro Fortuna, pubblicato a Frosinone da un gruppo di giovani cresciuti alla scuola giornalistica di Aristide Salvatori. Così scriveva il giornale il 10 luglio 1881: “Il 17 avverranno le elezioni amministrative nella nostra città. Sono sei i consiglieri da formare e cento ambizioni da soddisfare”. Alla fine dell’articolo compariva un appello a tutti gli elettori indipendenti o, comunque, contrari alla lista del sindaco Grappelli che diceva: “Date il voto a coloro che vi presentiamo. Essi escono dalle vostre file e non hanno altra ambizione che di aiutarvi, altra idea che nobilitare la città che li ha visti nascere”. Anche se nessuno dei candidati sostenuti dall’”Amico del Popolo” fu poi eletto il fermento repubblicano e internazionalista si farà sentire da quel momento in città da giornali, oggetto spesso di sequestri, e manifestazioni pubbliche più volte conclusesi con arresti e processi.
Uno dei temi di quella campagna elettorale parziale del 1881 fu lo scandalo scoppiato l’anno precedente relativo alla gestione dell’Esattoria comunale e al ruolo del tesoriere Giulio Gabrielli consigliere comunale schierato con il sindaco Grappelli. La discussa gestione dell’Esattoria comunale, con la conseguente mancanza di introiti nella casse municipali, si era trascinata, con grande sconcerto dell’opinione pubblica, per diversi anni fino a che, nel corso della riunione del Consiglio comunale del 16 gennaio del 1982, Giovanni Battista Grappelli annunciò le sue dimissioni da sindaco della città.
Con quelle dimissioni si aprì una lunga crisi al vertice comunale che durò per ben due anni. Frosinone rimase infatti senza il primo cittadino dal gennaio del 1882 alla fine del 1883 mentre alla guida dell’Amministrazione si susseguirono diversi assessori comunali con l’incarico di sindaco “facente funzioni” fino a che il 23 dicembre del 1983 fu nominato un nuovo sindaco, il farmacista ultramoderato Cesare Tesori che manterrà la carica fino al maggio 1886. Le opere più notevoli degli anni di Tesori sindaco furono la realizzazione del nuovo Ospedale civico, della Caserma annessa al Distretto militare, e la costruzione del Mattatoio comunale nel Borgo del Giardino.
Le nuove elezioni amministrative generali, che per norma si sarebbero dovute tenere nel secondo semestre del 1888, si svolsero, invece, il 3 novembre dell’anno successivo secondo quanto fissato dalla nuova legge elettorale comunale che, tra l’altro, disponeva che la nomina del Sindaco non avvenisse più su indicazione prefettizia ma con il voto del Consiglio comunale, almeno limitatamente ai capoluoghi di provincia e ai comuni con oltre 10.000 abitanti.
A Frosinone quella tornata elettorale rappresentò un grande successo per il sindaco in carica Giovanni Battista Grappelli e i suoi uomini, mentre solo una piccola pattuglia di clericali, guidati da Domenico Antonio Guglielmi, riuscì ad approdare nel Consiglio comunale. Il 9 novembre s’insediarono in Consiglio i trenta eletti in quelle votazioni. Si trattava di Luigi Alberti, Giacomo Bartoli, Giuseppe Bracaglia, Giuseppe Borsa, Luigi Ciceroni, Nicola Crescenzi, Silverio Di Palma, Filippo Dori, Antonio Fontana, Alessandro Fortuna, Giovanni Battista Gabrielli, Angelo Galloni, Giuseppe Galloni, Giovanni Battista Grappelli, Domenico Antonio Guglielmi, Paolo Longhi Bracaglia, Iginio Luè, Francesco Marchioni, Alessandro Napoli, Guglielmo Nobili, Benedetto Pantanelli, Antonio Parisini, Vincenzo Passerini, Gaetano Piccirilli, Luciano Politi, Nicola Renna Iannini, Giacinto Scifelli, Giuseppe Sodani, Giacinto Tesori e Oreste Zangrilli).
Subito dopo l’apertura dei lavori del Consiglio il presidente dell’Assemblea, Silverio Di Palma, avanzò la proposta di eleggere sindaco Giovanni Battista Grappelli perché “questa è la persona che ci ha designato il popolo, questa deve essere dunque la persona che deve raccogliere i nostri voti. Spetta ora a noi - continuò Di Palma - e a tutti indistintamente che qui sono, confermare il verdetto del popolo, votando unanime il suo nome sinonimo di amministrazione onesta e liberale, cauta e progressiva a un tempo”. Terminati gli interventi dei consiglieri, si procedette, per la prima volta nella storia della città, all’elezione diretta del Sindaco da parte del Consiglio comunale: alla carica di primo cittadino di Frosinone venne confermato Giovanni Battista Grappelli con 25 voti sui 27 presenti, mentre un voto a testa andò ai consiglieri Benedetto Pantanelli e Giacinto Scifelli. Prima della fine della seduta si passò all’elezione dei membri della Giunta che risultò composta dagli assessori effettivi Giacinto Scifelli, Angelo Galloni, Giovanni Battista Gabrielli e Filippo Dori e dai supplenti Oreste Zangrilli e Nicola Crescenzi.
Gli anni ’90 del XIX secolo si aprirono con una grave crisi amministrativa dopo le elezioni comunali parziali del 6 luglio del 1890 per il rinnovo di sei consiglieri che avevano esaurito il loro mandato. Erano stati eletti, in quelle votazioni, gli uscenti Giovanni Battista Gabrielli, Giuseppe Borsa, Filippo Dori, Nicola Crescenzi e Luciano Politi mentre Ciro Pesci entrava nel Consiglio comunale per la prima volta al posto dell’unico non rieletto, Alessandro Napoli. La profonda crisi dell’appena nata amministrazione Grappelli esplose proprio a seguito dell’elezione dei nuovi membri della Giunta comunale. Il 4 ottobre, al termine della prima seduta autunnale del Consiglio, convocata per la rielezione dei membri della Giunta uscenti Giovanni Battista Gabrielli, Filippo Dori e Nicola Crescenzi, si verificò l’imprevedibile. Mentre Gabrielli e Crescenzi vennero confermati assessori, senza problemi, l’avvocato Filippo Dori non fu rieletto perché battuto dal capo della minoranza clericale, Domenico Antonio Guglielmi, che riportò 15 voti contro i 14 dell’assessore uscente.
Il giorno dopo, Grappelli riunì la Giunta comunale per rassegnare le proprie dimissioni. In apertura della seduta, il Sindaco si rivolse così ai suoi colleghi: “Per il fatto che più consiglieri appartenenti alla maggioranza hanno riversato i loro voti sul capo della minoranza, procurando così l’elezione del medesimo, il sottoscritto è costretto a rassegnare le sue dimissioni da Sindaco con la coscienza di aver fatto sempre il proprio dovere”. Nel corso della stessa riunione anche la Giunta, per gli stessi motivi, decideva a sua volta di rassegnare le dimissioni).
La seduta del Consiglio comunale per deliberare sulle decisioni del Sindaco e della Giunta fu convocata per la sera dell’11 ottobre 1890. La riunione si aprì con la comunicazione, da parte del presidente dell’Assemblea Giacinto Scifelli, della determinazione di Grappelli a mantenere la sua decisione; subito dopo prese la parola Domenico Antonio Guglielmi che ricostruì, dal suo punto di vista, quanto era successo nella seduta precedente. “Piacque al Consiglio - ricordò Guglielmi - di non riconfermare in carica l’assessore uscente Sig. Dori e di eleggermi in sua vece. Tal fatto suscitò tutta l’avversione del Sindaco, il quale si adoperò perché io non fossi eletto; e quindi avvenuta, suo malgrado, la mia elezione dà le sue dimissioni. Certo molti sono i vincoli che da lunga pezza legano il Sindaco Grappelli con il Sig. Dori. Essi vestivano la stessa divisa gridando poi ‘Viva l’Italia’, quando l’Italia era già fatta”.
All’invito del presidente dell’Assemblea di non scendere sulle questioni personali Guglielmi replicò di sentirsi offeso dalle dimissioni del Sindaco, ponendo la questione sulla distinzione maggioranza/minoranza che, a suo dire, non esisteva in quanto anch’egli, in sede di votazione del Sindaco, aveva votato per Grappelli insieme ad altri 24 consiglieri. “Il Sig. Grappelli - proseguì con tono irritato Guglielmi - ha voluto gittarmi il guanto, che io raccolgo e combatterò fino alla morte. Egli, come ha avuto l’imprudenza di dire, si è dimesso puramente per motivi personali. Io intendo però dichiarare che conserverò il mio posto in Giunta”.
Alessandro Fortuna, che aveva capeggiato il gruppo di dissidenti della Lista Grappelli che avevano votato per il capo della minoranza Guglielmi, dichiarò che lui e i suoi amici non avrebbero seguito Guglielmi nella sua polemica perché “dannosa per la pubblica amministrazione”. Fortuna dichiarò, poi, che la sua convergenza su Guglielmi era stata dovuta, esclusivamente, al riconoscimento delle sue qualità di amministratore pubblico, mentre sull’Assessore per gli Affari legali, Filippo Dori, pesava un giudizio negativo per “l’esito infelice di qualche causa del Comune”. Il consigliere Fortuna, al termine del suo intervento, presentò un ordine del giorno, firmato da 15 consiglieri, che invitava il Consiglio comunale a non accettare le dimissioni del Sindaco. Al momento del voto erano presenti 25 consiglieri: mentre quattro membri della Giunta, Scifelli, Galloni, Gabrielli e Crescenzi, non parteciparono alla votazione, 21 furono i voti favorevoli all’ordine del giorno, mentre solo in tre, Paolo Longhi Bracaglia, Domenico Antonio Guglielmi e Nicola Renna Iannini, respinsero il documento).
Il giorno dopo la Giunta comunale, dando seguito al voto consiliare dell’11 ottobre, deliberò di rimanere al suo posto e invitò il Sindaco a ritirare le dimissioni, cosa che fece restando, cosi, anch’egli al suo posto”. “All’indomani - scriveva un nuovo giornale cittadino, “L’Aurora”, fondato da poco dall’avvocato Filippo Fortuna, zio dei fratelli Fortuna, - il Grappelli mandò al Guglielmi i suoi padrini per avere una riparazione colle armi. Il Guglielmi rispose, però, che i suoi principi religiosi non gli permettevano di accettare un duello: né glielo permetteva il codice penale e non intendeva perciò di incappare né nelle leggi divine, né nelle leggi umane”). Lo stesso Guglielmi propose di sostituire il duello con la formazione di un giurì d’onore che si riunì la sera del 13 ottobre per stabilire che il neoeletto assessore dovesse ritirare le parole offensive rivolte al Sindaco.
“Il Sindaco e la Giunta - scriveva ancora “L’Aurora” il 19 ottobre - hanno ritirato le dimissioni, e così pace è fatta! Noi non possiamo non applaudire a una così pacifica desiderata da tutti i cittadini; la qual soluzione tronca lo scandalo di grave scissura tra due delle prime famiglie della città. Nel tempo stesso però - proseguiva il giornale - non possiamo tacere che queste piccole guerre incruenti tra consiglieri, giunta e sindaci traggono seco gravissimi danni all’Amministrazione comunale”. Il giornale concludeva l’articolo lamentandosi che: “il Municipio con tali mezzi che incominciano con il finimondo e terminano con una stretta di mano e magari con una levata di tordi, cerchi di trastullare il popolo per non fargli mai vedere la fine del bilancio, né l’introito né l’esito. E intanto che il tempo passa, Pantalone paga!”.
  
DALLA GUERRA APERTA TRA IL COMUNE E LA SOTTTOPREFETTURA AL VOTO AMMINISTRATIVO DEL 30 APRILE 1893
 Dopo quelle del 1889 le nuove elezioni amministrative generali per il rinnovo totale del Consiglio comunale di Frosinone si tennero il 30 aprile del 1893. Quest’ultima tornata elettorale fu pesantemente condizionata dal voto politico del 1890 e ancor più dalle due elezioni per il Parlamento del 1892. A livello locale, al di là delle divisioni politiche nazionali, lo scontro si era acceso, soprattutto, tra chi propugnava “candidature ciociare” e chi era, invece, disponibile ad accettare le indicazioni governative per l’elezione di candidati “forestieri”.
Nella tornata elettorale del 23 novembre 1890 da parte di molti consiglieri comunali e da diversi giornali locali venne sostenuta la candidatura dell’avvocato Augusto Vienna, nato a Guarcino ma residente a Frosinone, che si piazzò poi al primo posto tra gli eletti in tutto il collegio ciociaro. L’elezione per la prima volta di un frusinate, anche se solo d’adozione, scatenò una ondata di entusiasmo in tutta la città che durò diversi giorni. Due anni dopo, nel corso del 1892, i frusinati furono chiamati, nel giro di pochi mesi, altre due volte alle urne per eleggere il proprio rappresentante nel Parlamento nazionale. La prima volta fu il 21 agosto di quell’anno a causa della improvvisa morte di Vittorio Ellena, uno dei tre eletti del Circondario, avvenuta il 19 luglio nel suo paese natale, Saluzzo, in provincia di Cuneo. Nella competizione elettorale straordinaria si confrontarono il candidato ministeriale Giuseppe Ellena colonnello del Regio Esercito nonché fratello del defunto deputato Vittorio, e il tipografo di Frosinone Claudio Stracca, politicamente vicino agli ambienti più popolari della città. La candidatura di Giuseppe Ellena, voluta dal Presidente del Consiglio Giolitti, che godeva naturalmente del forte sostegno della Sottoprefettura e dei giornali romani, suscitò fortissimi malumori tra gli stessi sostenitori locali del Governo nazionale fino a produrre una profonda spaccatura tra i liberali di Frosinone tanto che il Sindaco di Frosinone arrivò a dichiarare pubblicamente di non partecipare alla campagna elettorale e di astenersi dal voto contro l’ennesima candidatura “straniera” imposta al Collegio.
I “dissidenti” liberali di Frosinone non presero per niente in considerazione la candidatura locale del tipografo Stracca il quale, in polemica con il candidato governativo, in un suo pubblico manifesto, aveva affermato che “i voti che nelle elezioni politiche raccolgono gli operai sono per le riforme economiche e sociali, quelli che raccolgono i militari sono voti per la causa del militarismo, che è la causa della pubblica miseria”. Stracca dichiarò poi che la sua collocazione politica era all’interno del nascente movimento operaio mentre i suoi sostenitori diffondevano in città un volantino con cui raccomandavano il voto per “l’operaio tipografo Claudio Stracca” e si ricordava come nell’antica Roma “i plebei lottarono contro i patrizi e salirono a reggitori dello Stato”. Il vincitore morale di quelle elezioni fu sicuramente il Sindaco di Frosinone anche se il seggio alla Camera se lo aggiudicò Giuseppe Ellena: infatti sui 12.163 elettori del Collegio si erano presentati alle urne solo in 5.862 mentre furono ben 6.300 gli elettori che seguirono l’indicazione di Grappelli e dei suoi uomini per il boicottaggio del voto. Il colonnello Ellena non fece in tempo, però, ad approdare in Parlamento perché la sua elezione non poté essere convalidata prima per la chiusura estiva della Camera e, subito, dopo, per la scadenza naturale della legislatura.
Le nuove elezioni politiche furono indette per il 6 novembre del 1892. La campagna elettorale e quel voto furono caratterizzati in tutta Italia da pressioni e azioni corruttive senza precedenti da parte degli ambienti governativi. Giolitti arrivò, addirittura, a rimuovere ben 46 dei 69 Prefetti e con loro numerosi Sottoprefetti, a sciogliere moltissimi consigli comunali alla vigilia del voto e, a risultati acquisti, a farne annullare gli esiti in 19 collegi elettorali. L’attività di pressione e di corruzione degli apparati governativi si fece sentire anche a Frosinone con la sostituzione del Sottoprefetto a pochi giorni prima delle elezioni e, a soli sei giorni dal voto politico, con lo scioglimento del Consiglio comunale e, infine dopo il voto facendo ritardare per mesi la convalida del deputato eletto a Frosinone, Augusto Vienna, solo perché non di gradimento di Giolitti che aveva sostenuto ancora una volta Giuseppe Ellena.
Il 3 novembre apparve sui muri della città un manifesto che informava i frusinati che il loro Consiglio comunale era sciolto e che il funzionario del Ministero dell’Interno, Alfredo Del Mazza, aveva preso il posto del sindaco Grappelli essendo stato nominato Regio commissario straordinario di Frosinone. Appena venuto a conoscenza dei decreti di scioglimento del Consiglio comunale Grappelli indirizzò a sua volta un manifesto ai cittadini di Frosinone con il quale, tra l’altro, riferiva sul tempestoso colloquio avuto qualche giorno prima con il sottoprefetto Anceschi che lo aveva convocato per convincerlo ad appoggiare la candidatura del colonnello Ellena. L’incontro-scontro tra il Sindaco Grappelli e il sottoprefetto Anceschi suscitò un vero e proprio moto di solidarietà dei frusinati nei confronti del loro primo cittadino e ne aumentò enormemente la popolarità.
Intanto in vista della scadenza dei sei mesi di commissariamento della città erano state fissate dalla stessa Prefettura, per il 30 aprile del 1893, le nuove elezioni amministrative generali. Pochi giorni prima del voto, il 20 aprile, il giornale “La Falce” di Oreste Fortuna aveva ripreso le sue pubblicazioni lanciando un appello ai suoi lettori: “Sono prossime le elezioni amministrative. Noi ci rivolgiamo agli operai di carattere non ai sedicenti che danno il denaro al cento per cento, noi diciamo loro: fate la vostra lista: imponete che almeno la metà dei consiglieri appartenga a voi; imponete che nella lista siano inclusi due o tre contadini i migliori per educazione ed istruzione; imperciocchè è giusto che una classe così numerosa sia anch’essa rappresentata in Consiglio”.
Non ebbe però alcun successo ancora una volta il tentativo di presentare una lista alternativa all’ormai popolarissimo Grappelli che, reduce dagli scontri con le autorità prefettizie, era visto da tutta la cittadinanza come il difensore della città da ogni sopraffazione governativa. Il “listone” grappelliano, che tra l’altro comprendeva diversi volti nuovi della politica cittadina, poteva godere dell’appoggio di quasi tutte le correnti politiche cittadine, a cominciare dal deputato Augusto Vienna. La lista non comprendeva, però, come auspicato da Oreste Fortuna un numero rilevante di “operai” e tantomeno di contadini: era presente, invece, il grosso imprenditore ceccanese Filippo Berardi, senatore del Regno e presidente dell’Amministrazione provinciale di Roma, il quale, però, non terminerà il mandato perché morirà tragicamente nella capitale il 9 marzo del 1895.
Il voto del 30 aprile del 1893 decretò una facile affermazione della lista capeggiata da Grappelli. Entrarono nel Consiglio comunale Luigi Alberti, Gaetano Bouchard, Giacomo Bartoli, Filippo Berardi, Giuseppe Bracaglia, Francesco Bragaglia, Giuseppe Calderari, Filippo Carboni, Vincenzo Carboni, Luigi Ciceroni, Giovanni Battista Gabrielli, Giuseppe Galloni, Vincenzo Giansanti, Giovanni Battista Grappelli, Domenico Antonio Guglielmi, Augusto Lattanzi, Francesco Marchioni, Luigi Antonio Marini, Federico Napoli, Benedetto Pantanelli, Ernesto Paradisi, Antonio Parisini, Vincenzo Passerini, Luciano Politi, Nicola Renna Iannini, Giacinto Scifelli, Cesare Sterbini, Ettore Tinelli, Pietro Valle e Antonio Vivoli.
Acquisito il risultato del voto amministrativo il Regio commissario convocò, per il 5 maggio, il Consiglio comunale con all’ordine del giorno una sua relazione sui sei mesi di gestione straordinaria e, subito dopo, l’elezione del Sindaco e della Giunta. L’ormai ex commissario Del Mazza, dopo aver concluso il suo rendiconto, in nome del Re, dichiarò costituito, il nuovo Consiglio comunale cittadino e lasciò la presidenza dell’Assemblea a Giovanni Battista Grappelli che, nelle elezioni del 30 aprile, aveva riportato il maggior numero di suffragi. Il primo a prendere la parola fu Giuseppe Galloni che andò subito all’attacco del rappresentante del Governo: “Dobbiamo rallegrarci - affermò il consigliere - della relazione testé letta dal Regio Commissario. Ed invero era stato strombazzato ai quattro venti che gravi irregolarità eransi verificate in questa Comunale Amministrazione, tanto da doversi sciogliere il Consiglio; oggi, invece, dopo sei mesi che il Consiglio è stato sciolto, il Regio Commissario esordisce la sua relazione dicendo di dovere lealmente dichiarare che le gravi irregolarità non esistono.
Galloni propose, alla fine del suo intervento, un ordine del giorno per impegnare il Consiglio comunale a riesaminare tutte le deliberazioni adottate dal Regio Commissario nel periodo della sua permanenza a Palazzo Ciceroni. Cesare Sterbini, a sua volta, dopo aver denunciato la completa mancanza di motivazioni per la proroga di tre mesi del commissariamento del Comune, proponeva, in aggiunta all’ordine del giorno di Galloni, la nomina di una commissione per uno studio accurato della relazione del Commissario per, poi, riferirne al Consiglio. Anche Vincenzo Carboni presentò un suo ordine del giorno di forte protesta contro l’assurda accusa lanciata dal Commissario alla passata Amministrazione di essere diventata “una fucina elettorale” a sostegno alla candidatura di Augusto Vienna. Alla fine della riunione tutti gli ordini del giorno vennero approvati all’unanimità.
Conclusa la prima parte della seduta si passò all’elezione del Sindaco e della Giunta comunale. Alla carica di primo cittadino venne confermato, ancora una volta, Giovanni Battista Grappelli che su 24 presenti ebbe 23 voti e una sola astensione, la sua. All’unanimità dei presenti fu eletta anche la nuova Giunta comunale con Giacinto Scifelli, Giovanni Battista Gabrielli, Domenico Antonio Guglielmi e Francesco Marchioni, assessori effettivi, Nicola Renna Iannini e Francesco Bragaglia, supplenti.
Intanto le autorità prefettizie non avevano gradito affatto le critiche provenienti dal Consiglio comunale nei loro confronti: il 13 maggio il nuovo sottoprefetto, Bartolomeo Filippo Pino, che aveva da pochi giorni preso il posto di Anceschi, emise un decreto con cui sospendeva, nei suoi effetti giuridici, la deliberazione consiliare del 5 maggio nella parte relativa agli ordini del giorno dei consiglieri Galloni, Sterbini e Carboni. Dieci giorni dopo, il 22 maggio, a sua volta, il Prefetto della Provincia di Roma, Andrea Calenda, considerando “che dalla discussione degli ordini del giorno emergono parole di biasimo verso pubblici funzionari e di censura contro il provvedimento sovrano dello scioglimento del Consiglio e che è vietato ai consiglieri comunali di censurare gli atti emessi dal Governo nell’ambito delle sue attribuzioni e di esprimere apprezzamenti sull’operato dei pubblici funzionari, decretava il completo annullamento della delibera in questione”.
Ancor prima di essere a conoscenza dell’ultimo decreto prefettizio il Consiglio comunale, riunito il 20 maggio, aveva deliberato l’istituzione di una “Commissione per lo studio della Relazione del Regio Commissario straordinario di cui alla delibera del 5 corrente”. Furono eletti al delicato compito Giuseppe Galloni, Cesare Sterbini e Vincenzo Carboni, proprio i tre presentatori degli ordini del giorno bocciati dalle autorità prefettizie di Frosinone e di Roma. Il lavoro della Commissione andò avanti per alcune settimane e, sulla base della sua relazione finale, diverse delibere, a suo tempo adottate dal Commissario straordinario, vennero contestate e non ratificate dal Consiglio comunale. Dalle verifiche della Commissione sull’operato del Regio commissario i frusinati ebbero la conferma del carattere pretestuoso degli interventi di Giolitti, tramite il prefetto Calenda e il sottoprefetto Anceschi sul libero svolgimento della vita amministrativa della città per cui, quando il 24 novembre del 1893 arrivò a Frosinone la notizia delle dimissioni del presidente Giolitti, ci furono manifestazioni di esultanza nella città e nel Circondario.
Per la caduta del governo nazionale, in particolare, il giornale “L’Ernico” espresse tutta la sua soddisfazione in un suo editoriale del 5 dicembre del 1893. “Fra le imprecazioni della Camera e le maledizioni di tutta Italia - scriveva il giornale - Giolitti ha finalmente abbandonato il Governo. E’ caduto per non rialzarsi più! La famosa relazione dei Sette lo ha inabissato insieme ai suoi compagni. Gloria e onore a Napoleone Colajanni e Felice Cavallotti che da forti e coraggiosi - da veri degnissimi rappresentanti del popolo - han saputo far conoscere il putridume che si nasconde in certe sfere della Società”.
A Frosinone, il sindaco Grappelli ostentò, in maniera molto particolare, la sua soddisfazione per la fine del governo Giolitti. Infatti, sul primo numero del suo nuovo giornale cittadino “La Battaglia”, Alessandro Fortuna il 7 dicembre del 1893 scriveva che: “Il giorno della caduta del Ministero Giolitti si vedeva sventolare da una finestra della casa del Sindaco una malinconica bandiera. Evidentemente il comm. Grappelli dimostrava in quel modo contro il Giolitti il suo malumore per lo scioglimento del Consiglio municipale al tempo delle ultime elezioni politiche”. Grappelli non fu il solo, a Frosinone, a esporre la bandiera italiana per esprimere la propria esultanza per la fine del primo governo Giolitti. La Società Operaia seguì l’esempio del primo cittadino, anche se la cosa non piacque a tutti gli “operai” di Frosinone e, in particolare al “marmista” che, in una lettera così firmata apparsa sulla “Battaglia”, aveva scritto: “A noi operai poco importa la caduta di un ministero qualsiasi. Per noi la nostra meta è la rivendicazione del capitale. La bandiera operaia - concludeva il “marmista” - dovrebbe sventolarsi come la sventolò Spartaco, spezzando le catene quando alla testa de’ suoi compagni schiavi sconfisse le legioni romane”.
 
DAL VOTO AMMINISTRATIVO DEL 21 LUGLIO 1895 AI MOTI DI FINE SECOLO PER IL PANE E IL LAVORO
Un ciclo economico molto negativo interessò tutta l’Italia per tutto l’ultimo decennio dell’Ottocento. In particolare il crollo nazionale dell’agricoltura ebbe i suoi contraccolpi anche nel Circondario frusinate, dove ne risentì fortemente la produzione locale di vino, olio, cereali e foraggi. In particolare, a partire dal 1893, la situazione economica a Frosinone tese ad aggravarsi ulteriormente a causa del rilevante aumento della disoccupazione e del fenomeno dell’usura. Le drammatiche condizioni di vita e di lavoro della stragrande maggioranza dei frusinati cominciarono ad essere denunciate da tutti i giornali pubblicati a Frosinone in quegli anni. In particolare “La Falce” di Oreste Fortuna così scriveva il 20 aprile del 1893: “Nei paesi del nostro Circondario la mancanza di lavoro fa agonizzare migliaia di operai, la miseria dilaga e inghiotte borghesia, mezza borghesia, proletari e contadini”.
Per fra fronte alla crisi l’Amministrazione comunale si impegnò per una serie di lavori pubblici considerati indispensabili, come fu detto in Consiglio comunale, “per occupare i nostri operai, i quali nell’attuale crisi economica molto aspra, hanno bisogno di lavoro per provvedere il sostentamento”. Per esempio gli amministratori comunali, all’inizio del 1895, tentarono di dare una risposta al problema della disoccupazione sollecitando con forza l’inizio dei lavori del tronco Frosinone-Stazione ferroviaria della strada provinciale Frosinone-Gaeta che, poi, prenderà la denominazione di Viale America Latina.
Le iniziative comunali non ridussero, però, lo stato di indigenza della popolazione cittadina senza lavoro e il disagio di molte famiglie che si trovarono senza riparo in una stagione particolarmente rigida come quella dell’inverno tra il 1894 e 1895. Un solo intervento concreto fu adottato da parte del Comune che organizzò una distribuzione ai poveri di razioni di pane nell’ultimo giorno di Carnevale per andare in qualche modo in soccorso di coloro che si dibattevano nella miseria mentre, a cura del locale comitato della “Charitas”, vennero installate in città le cosiddette “cucine economiche” che assicurarono per molti mesi pasti caldi per centinaia di persone a prezzi bassissimi e gratuiti per i più indigenti.
In questo contesto il 21 luglio del 1895, dopo appena due mesi dalle elezioni politiche generali, i frusinati vennero chiamati alle urne per il rinnovo totale del Consiglio comunale. Quel voto amministrativo si tenne in una città segnata dalle divisioni e dalle polemiche dovute ancora allo stato d’incertezza circa l’esito definitivo del risultato delle elezioni politiche del 26 maggio dello stesso anno. Infatti i fautori dei due contendenti al seggio parlamentare del Circondario, Augusto Vienna e Giuseppe Ellena, si trovarono in contrasto anche nella formazione delle liste elettorali e non mancarono, durante la breve campagna elettorale, anche momenti di tensione fra i due schieramenti. Un nuovo giornale cittadino, “Il Cosa”, organo ufficiale di fatto degli “ellenisti”, il 20 luglio invitava, dalle sue colonne, a votare per una lista di sedici concorrenti che avevano tutti appoggiato il candidato “forestiero” nelle elezioni politiche di due mesi prima. Il gruppo guidato dal capo dei “clericali” di Frosinone, Domenico Antonio Guglielmi, era composto, soprattutto, da elementi vicini agli ambienti cattolici, anche se non mancava la presenza di “radicali” come Angelo Galloni e Alessandro Fortuna, uniti al resto dei candidati dalla comune avversione per il deputato “ciociaro” Augusto Vienna.
La lista capeggiata da Guglielmi fu, però, duramente sconfitta tanto che non riuscì ad eleggere nemmeno un consigliere, mentre quella guidata dal sindaco uscente, Giovanni Battista Grappelli, si aggiudicò tutti i seggi nel nuovo Consiglio comunale della città. I trenta consiglieri eletti, che si insediarono nella seduta del 31 luglio, erano Luigi Alberti, Gaetano Bouchard, Giuseppe Bracaglia, Francesco Bragaglia, Giuseppe Calderari, Filippo Carboni, Vincenzo Carboni, Umberto Cioccolani, Luigi Fuschi, Giuseppe Galloni, Vincenzo Giansanti, Gaetano Giordani, Giuseppe Giusti, Giovanni Battista Grappelli, Augusto Lattanzi, Francesco Marchioni, Luigi Antonio Marini, Ernesto Paradisi, Antonio Parisini, Vincenzo Passerini, Luciano Politi, Nicola Renna Iannini, Giacinto Scifelli, Cesare Sterbini, Claudio Stracca, Vincenzo Testa, Ettore Tinelli, Pietro Valle, Antonio Vivoli e Leone Vivoli(. Al termine della seduta si votò per l’elezione del Sindaco. 25 consiglieri sui 25 presenti votarono per Giovanni Battista Grappelli e, subito dopo, per la nuova Giunta comunale che risultò composta dagli assessori effettivi Giacinto Scifelli, Francesco Marchioni, Giuseppe Bracaglia e Umberto Cioccolani e dai supplenti Vincenzo Carboni e Nicola Renna Iannini.
Sul piano dell’attività amministrativa, la nuova Giunta comunale si trovò ad operare in uno stato di estrema difficoltà finanziaria non essendosi ancora ripianato il forte disavanzo dovuto alla gestione del Commissario prefettizio, terminata nel 1893 mentre era in atto, tra l’altro, una notevole riduzione dei proventi per il Dazio Consumo. Nonostante quella complicata situazione, la Giunta volle sottoporre all’approvazione del Consiglio, nella tornata del 31 agosto 1896, un piano con ben venti proposte d’interventi sulla città. I provvedimenti più importanti riguardavano la cessione del locale già Convento e dell’orto della Madonna della Neve per l’istituzione di una sezione dell’Asilo della Sacra Famiglia; la provvista della breccia per la manutenzione ordinaria delle piazze e delle strade comunali; l’impianto nella città dell’illuminazione elettrica; la trasformazione del Monte Frumentario in Cassa di prestanza agricola e l’istituzione nel Comune di un’Opera Pia “Elemosiniara e di ricovero dei mendichi”.
Nell’estate del 1897 iniziò, in tutta Italia, un nuovo periodo di crisi economica che provocò un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari, sia nelle città che nelle campagne. Come se non bastasse, la stragrande maggioranza della popolazione fu colpita, nello stesso periodo, da continui aumenti delle tasse di famiglia e di esercizio decisi da tutti i Comuni italiani. In quell’anno a Frosinone, per esempio, furono centinaia i reclami contro la decisione dall’Amministrazione comunale di aumentare sensibilmente la tassa di esercizio per gli artigiani, commercianti e piccoli imprenditori e il “fuocatico” per la totalità delle famiglie della città.
Contro quegli aumenti i frusinati non mancarono di manifestare, in varie forme, il loro risentimento. “Qui è vivo il malcontento dei cittadini contro l’autorità municipale - scriveva, infatti, il 7 giugno “L’Avanti!” il giornale socialista da poco fondato, in una delle sue prime corrispondenze da Frosinone - la “Commissione dei tre”, chiamata a rimaneggiare le tasse comunali, ha ferocemente aumentate le tasse fuocatico e d’esercizio. I reclami alla superiore autorità amministrativa fioccano e forse chissà… lasceranno il tempo che trova”. Il giornale, dopo aver denunciato i casi più clamorosi di “parzialità perpetrate a danno di alcuni, e di favori concessi ad altri”, si rivolgeva in questi termini agli amministratori comunali della città: “O quando la finirete con l’abusare della pazienza di questa troppo buona popolazione?!”. Nei mesi successivi anche in altri centri del Circondario, in particolare a Paliano, Ceccano e Bauco (Boville Ernica), si ebbero manifestazioni popolari di protesta contro i notevoli aumenti della tassa di famiglia. La più forte si svolse a Sgurgola nell’ottobre di quell’anno, quando 300 cittadini si riunirono in piazza protestando contro “l’aggravio del focatico e altro”. Scriverà più tardi “Il Cosa” ricordando quella manifestazione: “Fu un caso e una provvidenza se in quell’occasione i cittadini mostrarono tutta la loro calma, e non si dettero in preda a quell’eccesso di furore che, non a molto, condusse il palazzo comunale al fuoco e al saccheggio”).
Alle rivendicazioni di migliori condizioni di vita e di lavoro il Governo nazionale andava rispondendo, nelle regioni del nord, con lo scioglimento delle leghe bracciantili, l’arresto di deputati socialisti e di dirigenti e militanti sindacali e con l’impiego dei soldati del Regio Esercito nei lavori agricoli. Invece, nelle regioni centrali e meridionali del paese la protesta popolare, provocata anche dai livelli bassissimi dei salari, dalla diffusa disoccupazione e dalla forte pressione fiscale sui consumi, si manifestava in assalti ai forni, ai mulini, ai magazzini di grano e alle sedi comunali. Tra il 25 e il 30 aprile, in particolare, scoppiarono vere e proprie sommosse a Bari, Rimini, Napoli, Palermo, Ferrara e Pesaro e in moltissimi altri centri del paese. Il 1° maggio si segnalarono tumulti nelle Puglie e, nei giorni successivi, a Sesto Fiorentino, a Firenze e a Pavia la truppa arrivò a sparare sui manifestanti causando decine di morti. Il punto più alto della crisi si verificò a Milano dove il 6 maggio, nel corso di alcuni scontri fra manifestanti e le forze dell’ordine, erano rimasti uccisi due operai e un delegato di polizia. L’indomani venne proclamato uno sciopero generale di protesta e, per diversi giorni il generale Bava Beccaris scatenò contro i dimostranti la cavalleria e usò perfino l’artiglieria. Il bilancio dei fatti milanesi fu pesantissimo: si contarono 80 morti (300 secondo alcune fonti) e 450 feriti tra i manifestanti mentre i militari deceduti furono solo 2 e i feriti 22. Nel resto del territorio nazionale, in quelle giornate, si registrarono 50 vittime fra i dimostranti e uno tra i soldati. Alla repressione armata seguirono migliaia di arresti e di processi ai manifestanti e agli esponenti dei partiti di opposizione che riportarono condanne pesantissime e, anche, la soppressione di associazioni e organizzazioni operaie e socialiste e i sequestri per i giornali ritenuti antigovernativi.
A Frosinone, la stampa locale aveva cercato, naturalmente, di tenere informati i frusinati di quanto stava avvenendo a livello nazionale. “Il Cosa” del 22 maggio, per esempio, aveva scritto: “Chiunque abbia seguito e segua tuttora sui giornali quotidiani la cronaca degli attuali avvenimenti tumultuosi, deve convincersi che ci troviamo dinanzi alla ribellione furibonda di moltitudini stanche di patimenti, sfiduciate dell’opera delle autorità, che hanno colto questa malaugurata occasione del rincaro del prezzo del pane per sfogare contro tutto e contro tutti il rancore che si covava da anni; giacché tutto ciò che rappresenta l’autorità e sia essa governativa, o provinciale, o comunale, è stato preso di mira e fatto segno a minacce e violenze”.
Nei giorni precedenti i fatti di Milano, il prezzo del granturco e degli altri cereali aveva subito, anche a Frosinone, un forte aumento. Si rivelò, tuttavia, opportuno l’intervento del sindaco Grappelli che, proprio per prevenire ogni protesta popolare, impose ai negozianti di ritornare ai prezzi precedenti, cosa resa possibile anche grazie ad un accordo tra il Municipio e il grossista Cesare Prestini. “Niun aumento ha subito il granturco nello scorso giovedì - scrisse l’8 maggio “Il Cosa” - lode e ringraziamenti la cittadinanza deve al sullodato Sig. Prestini, il quale non curando i suoi privati interessi ha procurato l’utile e la pace della nostra città”. Negli stessi giorni l’Amministrazione comunale fece anche divulgare un manifesto con le tariffe bloccate per la vendita del pane al minuto. “Il Cosa”, che oltre al manifesto pubblicò anche le disposizioni dei regolamenti comunali d’igiene e di polizia urbana sullo smercio di farine, pane e paste elementari, indirizzò “Un meritato elogio al Comune che, sebbene tardi, pure è venuto nella determinazione di applicare una tariffa ai fornai che hanno sempre venduto il pane a loro talento a discapito della popolazione, e specialmente della classe povera”.
Intanto il governo nazionale, volendo avvalorare la tesi che i disordini facessero parte di un piano rivoluzionario contro le istituzioni ordito, in particolare, dai socialisti era interessato a conoscere la consistenza di quel partito provincia per provincia, circondario per circondario. Per Frosinone il Sottoprefetto, che già in un suo rapporto dell’aprile 1897, aveva fatto sapere che in tutto il Circondario non c’erano socialisti affiliati al partito e che nessuno faceva propaganda o anche solo professione di socialismo, non fece altro che confermare, il 16 maggio dell’anno successivo, che non risultava, ancora a quella data, nessun serio tentativo socialista di dar vita ad un’organizzazione locale né di stabilire saldi collegamenti con l’Unione Socialista Romana. Ma sul finire del 1898 il Sottoprefetto informò le autorità romane della presenza a Frosinone di un gruppo di giovani “socialisti”, e dell’arresto di alcuni di loro per aver tentato di raccogliere in città adesioni alla campagna nazionale promossa dal P.S.I. in favore dei condannati per i fatti di Milano. “Una scheda di sottoscrizione per la nota petizione a favore dei condannati per i moti del Maggio 1898 - riferì tra l’altro il Sottoprefetto - venne messa in giro in questo capoluogo da certo Napoleone Scaccia, barbiere”.
All’inizio del 1899 anche a Frosinone, come in tutta Italia, venne rafforzata la presenza del Regio Esercito con compiti esclusivi di servizio di ordine pubblico per tutto il Circondario. Il 2 gennaio di quell’anno, infatti, giunse, col treno delle 11 a.m., un battaglione di Fanteria del 7° Reggimento, distaccato da Roma. A metà febbraio, dal 14 al 19 del mese, il battaglione fu impegnato in esercitazioni militari al Prato della Selva, di proprietà di Benedetto De Sanctis, di cui il Comune pagava il fitto mentre altre esercitazioni si svolsero al Prato del Ponte del Rio dal 12 al 16 giugno. Sempre a Frosinone si tennero, dal 10 al 15 agosto, anche diverse manovre della Cavalleria e il Comune dovette farsi carico anche della fornitura di foraggio per i cavalli oltre che del fitto della Caserma De Sanctis, nel Borgo di Porta Romana, per l’alloggiamento delle truppe. Agli inizi di dicembre la guarnigione, ormai di stanza a Frosinone da quasi un anno, fu ulteriormente rafforzata fino a una forza di 1.000 uomini che vennero sistemati in 600 nella Caserma De Sanctis e in 400 nella vecchia Caserma Ricciotti di Via Rattazzi. Lo stazionamento di quelle truppe a Frosinone si protrasse, senza che fossero, di fatto, mai impiegate in grandi operazioni di ordine pubblico, fino alle elezioni politiche generali del giugno del 1900.
 
“ALLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL 15 GIUGNO 1902 SCENDONO IN CAMPO ‘IL POPOLANO’ E IL CIRCOLO OPERAIO”
Alla fine del 1901 fece la sua comparsa a Frosinone un nuovo giornale destinato a durare molti anni e ad avere una grande influenza sulla vita cittadina: era “Il Popolano” che nel sottotitolo si dichiarava “Giornale Democratico di Frosinone”. Il primo direttore fu l’avvocato Luigi Vittorio Todini di Veroli al quale succedettero gli avvocati Luigi Valchera e Domenico Marzi, entrambi di Frosinone, e, negli ultimi anni, Carlo Chiapponi, Filippo Sordi e Giovanni Grandi, anch’essi frusinati. “Il nostro programma - era scritto sul primo numero del Popolano pubblicato il 29 dicembre 1901 - può compendiarsi in poche parole: politicamente la nostra azione s’informerà al principio che solo nel popolo risiede il diritto di governare se stesso e di disporre dei suoi destini; e colla guida di questo principio mireremo alla educazione politica e civile della classe dei lavoratori e dei piccoli proprietari di questa regione. Dal lato economico domanderemo il riconoscimento dei diritti di uno dei fattori della produzione: il lavoro; quindi una retribuzione più umana della mano d’opera da una parte e dall’altra che uno stato dissanguatore non accomuni in una mortale anemia produttori e salariati”. E ancora: “Istilleremo ai lavoratori - operai o piccolo borghesi - sentimenti di solidarietà fraterna, ricordando ad essi che la loro forza è in loro stessi. Prostrati sinora di fronte a pregiudizi che la nuova civiltà va distruggendo, dimostreremo ad essi che solo nella organizzazione troveranno la redenzione loro”.
Nel febbraio del 1902, a poche settimane dalla nascita del “Popolano”, gli stessi redattori del giornale promuovevano la costituzione a Frosinone del “Circolo Democratico Operaio”, che riprese l’antica denominazione dell’associazione fondata da Oreste Fortuna nel lontano 1882, con l’obiettivo di “organizzare tutte le forze operaie e istituire una Lega di resistenza”. I soci del Circolo, entrati in contatto con la Camera del Lavoro di Roma, il 6 marzo ricevettero la sollecitazione a unirsi in Lega di resistenza, eleggere il Comitato direttivo e stabilire le quote associative e solo dopo, fu loro detto, “si farà la sezione sindacale di Frosinone”. Fu quello l’atto di nascita della futura Camera del Lavoro di Frosinone, anche se ancora per qualche tempo le varie categorie di lavoratori opereranno solo all’interno del Circolo Democratico Operaio che aveva, da poco, aperto la sua sede provvisoria al n. 22 della Via Rattazzi.
Nel dare la notizia di un prossimo trasferimento del Circolo in Piazza Garibaldi, “La Nuova Gazzetta Latina” informava, il 20 aprile, che le iscrizioni alla “nuova Società” andavano avanti alacremente e che di una commissione eletta con l’incarico di redigerne lo Statuto, facevano parte l’avvocato Leone Vivoli, l’impiegato postale Alessandro Cottarelli, l’impiegato di banca Agostino Gallina, l’avvocato Pietro Scala, il fotografo Salvatore Pereno e il maestro elementare Vincenzo Minotti nonché tre operai e due contadini. Il giornale rese anche noto di aver ricevuto da alcuni iscritti al Circolo una lettera con la quale denunciavano che erano incominciate a loro carico “inquisizioni poliziesche e intimidazioni” e il suo direttore, Alessandro Fortuna, invitò gli scriventi “a declinarci il nome delle persone che attentano con metodi indegni e borbonici alle manifestazioni della coscienza popolare”.
In polemica con l’Associazione Monarchica Liberale di Frosinone, che aveva definito pubblicamente il Circolo Democratico Operaio come un “covo di sovversivi”, con una lettera pubblicata dal “Popolano” nel maggio del 1902, il Comitato direttivo del Circolo ritenne necessario precisare: “Che tra i soci vi siano persone di fede politica repubblicana o dei socialisti, può darsi; ma il Circolo però non è né socialista né repubblicano, è semplicemente Democratico; cioè raccoglie in sé tutti gli elementi cittadini che non intendono fossilizzarsi, né vogliono spendere le energie proletarie in inutili sbandieramenti o parate, ma dare invece agli operai unità e disciplina di partito in tutte le manifestazioni della vita pubblica”.
Intanto per il 15 giugno 1902 era stata fissata una nuova tornata amministrativa parziale per eleggere i 17 consiglieri comunali che dovevano sostituire gli eletti, ormai scaduti, provenienti dalle elezioni generali del 1895. Nelle successive elezioni amministrative parziali del 25 giugno 1899 i “clericali” di Domenico Antonio Guglielmi erano stati nuovamente sbaragliati dalla lista dei liberali di Grappelli che il successivo 12 luglio venne, ancora una volta, eletto sindaco della città. Ma gli strascichi delle polemiche sulla gestione dell’Assessorato ai Lavori pubblici e i ripetuti contrattempi nell’assegnazione dell’appalto per l’illuminazione elettrica della città, portarono il Sindaco a rassegnare le dimissioni. Il 24 maggio 1901 Grappelli consegnò alla Giunta comunale una lettera in cui spiegava le cause della sua decisione: “Motivi di salute - aveva scritto il Sindaco - m’impongono allontanarmi dal paese per non breve tempo e non potendo corrispondere al dovere che richiede il delicato posto di Sindaco, come, coscienziosamente ho sempre fatto, rassegno le mie dimissioni ringraziando con tutto l’ardore del mio animo i Signori Consiglieri che mi furono larghi del loro appoggio e che ebbero in me costante fiducia nel lungo periodo del mio Sindacato”. Il successivo 5 giugno le dimissioni del Sindaco e della sua Giunta vennero rese note al Consiglio comunale con la lettura da parte dall’assessore Scifelli dello scritto di Grappelli. Le dimissioni, ufficialmente rassegnate per “motivi di salute” in realtà erano state provocate dagli attacchi alla sua Amministrazione e dai dissensi espressi all’interno della stessa Giunta.
Il Consiglio comunale l’11 giugno aveva respinto, con 14 voti sui 17 presenti, le dimissioni del Sindaco mentre prese solo atto di quelle degli assessori Scifelli, Cioccolani, Marchioni e Minotti. Nella stessa seduta consiliare venne, poi, eletta una nuova Giunta comunale in cui furono confermati Giacinto Scifelli con 16 voti e Umberto Cioccolani (13) mentre per la prima volta entravano nell’esecutivo Leone Vivoli (16 voti) e Luigi Antonio Marini (11). Come supplenti risultarono eletti Vincenzo Passerini e Giovanni Battista Minotti. “La vita pubblica - dichiarò Grappelli alla chiusura della seduta consiliare - logora le fibre più forti ed io che ho sempre vissuto per essa mi sento affranto e vi ho domandato il permesso di riposarmi Voi mi avete risposto additandomi questo posto. Io vi resto ma conto sulla vostra efficace, concorde illuminata cooperazione per seguitare a servire ancora questa mia patria che amo tanto, come un figlio affettuoso può amare sua madre”.
La situazione di relativa stasi della vita politica e amministrativa della città che si protrasse per circa un anno venne interrotta improvvisamente il 3 giugno 1902 quando, con un suo decreto, il Prefetto di Roma fissò la data delle nuove elezioni amministrative parziali per il 15 dello stesso mese. Si crearono, immediatamente, per la conquista della guida dell’amministrazione della città, due raggruppamenti contrapposti: da una parte la cosiddetta “lista del Comune” in cui figuravano, oltre alla gran parte dei consiglieri comunali uscenti con in testa il sindaco Grappelli, anche alcuni esponenti dell’Associazione Monarchica Liberale di Vincenzo Carboni e i “clericali” di Domenico Antonio Guglielmi che nelle ultime competizioni elettorali non erano riusciti a entrare in Consiglio; dall’altra la lista preparata dal Circolo Democratico Operaio, sorto da poco in città che aveva già raggiunto un numero considerevole di soci i quali, riuniti in assemblea generale, avevano deciso di partecipare alle elezioni amministrative. La stessa assemblea deliberò la formazione di una lista di nove candidati che comprendeva anche quattro socialisti: il commerciante Luigi Spaziani, il tipografo Giuseppe Spaziani, l’impiegato Giuseppe Ferretti e il contadino Arcangelo Silvestri. Gli altri candidati, tutti di idee radicali o repubblicane, erano Cesare Bragaglia, Pietro Valle, Cesare Sterbini, Agostino Gallina e Francesco Bragaglia. Nella stessa occasione gli iscritti al Circolo definirono il seguente programma elettorale in sei punti: “1. Applicazione del referendum amministrativo; 2. Imposte comunali progressive e sgravio dei piccoli contribuenti; 3. Istituzione di una scuola professionale e refezione ai ragazzi poveri; 4. Esenzione della tassa di Ricchezza Mobile al personale insegnante; 5. Municipalizzazione dei servizi pubblici con l’inserimento nei capitolati di appalto del Comune della clausola del minimo salariale garantito agli operai su proposta dei sindacati; 6. Acqua potabile e illuminazione elettrica con distribuzione ai privati”.
Finalmente, dopo una campagna elettorale che “contrariamente alle vecchie abitudini e alle tradizioni di quietismo” - scriveva all’indomani del voto “La Nuova Gazzetta Latina” - aveva avuto a Frosinone “un’accentuazione inusitata”, vinse il sindaco uscente Giovanni Battista Grappelli con la sua lista “mista”. I risultati del 15 giugno fecero scrivere allo stesso giornale che: “Hanno vinto tutti! I grappellisti, i popolari, i clericali. Gli unici ad essere battuti furono i monarchici che riuscirono a malapena ad eleggere un solo consigliere. In complesso - concludeva il giornale di Alessandro Fortuna - gli elettori hanno saputo regolarsi bene. E ora all’opera perché tutti i propositi di rinnovamento sono meno che niente, se non si sa bene prima dove si vuole andare e fin dove si può giungere”. Nel nuovo Consiglio comunale entrarono quattro dei nove candidati democratici: l’ing. Francesco Bragaglia e l’avv. Cesare Bragaglia, entrambi radicali, il repubblicano Pietro Valle e il socialista Luigi Spaziani. Di quest’ultimo, che era il più giovane degli eletti, “La Nuova Gazzetta Latina” aveva scritto che “Rappresenta autenticamente le aspirazioni della classe operaia. Pieno di operosità, d’ingegno vivo e abbastanza colto non sarà certo una comparsa in Consiglio”. Il popolare Gigetto Spaziani risultò essere il primo socialista eletto al Comune di Frosinone e, al momento, anche l’unico in tutto il Circondario.
All’indomani del voto Grappelli lasciò Frosinone in direzione di Montecatini Terme per un periodo di cure e riposo e, per tutta l’estate del 1902, la direzione delle cose comunali fu affidata ai “facente funzioni” Giacinto Scifelli e a Leone Vivoli. “La Nuova Gazzetta Latina” scrisse, alla metà di settembre, che: “Per quello che si dice e per quanto si può ritenere, alla carica di Sindaco verrà riconfermato a grandissima maggioranza il comm. Grappelli, tornato da poco da Montecatini, più rubizzo e più florido del solito”. Lo stesso giornale prevedeva che nella nuova Giunta comunale sarebbero entrati Giacinto Scifelli, Leone Vivoli, Giuseppe Bracaglia e il molto discusso Domenico Antonio Guglielmi, leader dei clericali frusinati, già gonfaloniere cittadino nell’epoca pontificia, mentre ne sarebbe rimasto escluso il chiacchierato ex assessore ai Lavori pubblici Umberto Cioccolani. Bisognò attendere la sessione ordinaria autunnale del 18 settembre per vedere insediati, finalmente, i consiglieri eletti il 15 giugno. Erano, in ordine di preferenze, Giovanni Battista Grappelli, Giacinto Scifelli, Giuseppe Calderari, Giuseppe Bracaglia, Ettore Tinelli, Giuseppe Ferrante, Pietro Valle, Francesco Bragaglia, Cesare Bragaglia, Luigi Spaziani, Silverio De Palma, Alessandro Renna Iannini, Antonio Parisini, Vincenzo Passerini, Domenico Antonio Guglielmi, Umberto Cioccolani e Raffaele Scappaticci. Sempre nella stessa riunione consiliare, con 21 voti e 7 schede bianche, Giovanni Battista Grappelli venne rieletto sindaco della città mentre per la Giunta comunale furono scelti, come assessori effettivi, Domenico Antonio Guglielmi con 25 voti, Giuseppe Bracaglia (21), Giacinto Scifelli (18) e, a sorpresa, Umberto Cioccolani, eletto con 13 voti solo dopo tre votazioni in ballottaggio con Leone Vivoli; come supplenti i più votati furono Francesco Bragaglia e Silverio De Palma.
La composizione di quella Giunta venne, poi, definita un “aborto” da Alessandro Fortuna sul suo giornale: “Questa votazione - scrisse il 21 settembre - è il rovescio della votazione elettorale del giugno scorso”. Fortuna interpretava così la delusione di quanti si aspettavano un profondo cambiamento nella vita amministrativa della città e non capivano la presenza nell’esecutivo cittadino sia del discusso Umberto Cioccolani, anche se trasferito dai Lavori pubblici alla Istruzione, sia del “clericale” Domenico Antonio Guglielmi che, appena rientrato in Consiglio dopo una lunga assenza, era riuscito anche ad accedere al governo cittadino.
 
“DALLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL 9 LUGLIO 1905 AL RITORNO DELL’EX GONFALONIERE PONTIFICIO DOMENICO ANTONIO GUGLIELMI”
Il Consiglio comunale eletto nelle ultime amministrative del 1902 si era trovato ad affrontare per diversi anni, in maniera quasi esclusiva, i due “eterni” problemi cittadini dell’acqua e della luce che, oltre a tenere occupati gli amministratori, erano vissuti con inquietudine dall’intera cittadinanza. Proprio le complicazioni di vario tipo nell’approvazione di quell’ultimo appalto furono all’origine di una lunga e difficile crisi comunale che bloccò completamente l’attività amministrativa dal giugno al novembre 1904. Infatti, il 30 maggio di quell’anno, il sindaco Grappelli aveva inviato una lettera alla Giunta comunale, che fu letta l’8 di giugno in Consiglio dall’assessore Guglielmi, con la quale comunicava che, dovendosi allontanare per motivi di salute da Frosinone per alcuni mesi, era costretto a rassegnare il suo mandato di sindaco.
“In paese – aveva scritto in quei giorni il giornale di Alessandro Fortuna, “La Nuova Gazzetta Latina”, - si credette all’esistenza di un retroscena in cui avessero agito alla chetichella il sindaco e qualche assessore che alcuni ritengono contrari all’impianto della luce elettrica. Fin qui la cronachetta che potrebbe anche essere maligna - concludeva l’articolo - ma che ad ogni modo merita qualche spiegazione. Perché sarebbe contrario il Sindaco? Perché, si dice, quale proprietario di mulini ad acqua vedrebbe a malincuore sorgere delle installazioni di mulini elettrici”. Il sindaco Grappelli, naturalmente molto amareggiato per quanto si mormorava in paese, lasciò Frosinone per la consueta stagione di cura e riposo in quel di Montecatini Terme. Durante tutta l’estate il Consiglio comunale venne più volte convocato al fine di far recedere il Sindaco dalle sue dimissioni ma Grappelli, dal luogo dove stava riposando, faceva sapere sempre di essere più che mai deciso a ritirarsi a vita privata.
Restava incombente, però, la minaccia di scioglimento del Consiglio comunale con il conseguente commissariamento in attesa di elezioni anticipate: di fronte a quel pericolo, visto anche il non emergere di candidature alternative, Grappelli si dimostrò più disponibile per una sua rielezione che, avvenne il 3 dicembre con 17 voti sui 27 presenti mentre Giuseppe Bracaglia ebbe 7 voti e Vincenzo Chiarelli uno. Il successivo 19 dicembre Grappelli si presentò in Consiglio comunale per accettare la nuova nomina a primo cittadino. Dopo la lettura del verbale il Sindaco dichiarò, per giustificare il suo ripensamento, che era stato costretto a cedere alle insistenze dei suoi amici i quali, tra l’altro, gli avevano confidato di non essere riusciti a mettersi d’accordo su un altro nome e che perciò per scongiurare “il bieco fantasma del Commissario Regio egli dovette riaccettare”. Anche se la lunga crisi nei vertici comunali, alla fine del 1904, si era formalmente chiusa, l’attività del Consiglio per tutto il primo semestre del 1905 fu praticamente nulla tanto che le sue rare riunioni si trasformavano, secondo la stampa locale, in “sedute cadaveriche”.
Intanto Le elezioni amministrative a Frosinone per il rinnovo di un terzo dei consiglieri comunali erano state fissate per il 9 luglio 1905. A quella competizione elettorale era presente la “Lista del Comune”guidata da e Grappelli composta da elementi dell’Associazione Monarchica Liberale e da gran parte dei consiglieri uscenti fra i quali Antonio Parisini e Luigi Passerini. Per la prima volta partecipò alle elezioni amministrative cittadine anche una lista di orientamento cattolico con i candidati Alessandro Kambo, Rocco Magni, Giovanni Battista Minotti, Antonio Fontana, Gaetano Cacciavillani, Giacinto Tesori e Gaetano Giordani. Da parte loro i socialisti di Frosinone decisero di partecipare alla competizione elettorale dando vita, insieme ai radicali e ai repubblicani, a una “lista democratica” di otto candidati con Angelo Galloni pubblicista, Benedetto Pantanelli commerciante, Luigi Valchera avvocato, Ciro Pesci possidente, Arcangelo Silvestri contadino, Antonio Vivoli avvocato, Alessandro Ferrari pizzicagnolo, Domenico Marzi avvocato. Gli otto candidati del “Blocco democratico” resero pubblico proprio il giorno del voto un manifesto elettorale indirizzato “Ai cittadini liberi e coscienti di Frosinone” che si apriva con un vigoroso appello agli elettori frusinati: “L’ora del popolo è suonata; e mentre una scialba fiamma si va spegnendo, dagli ultimi bagliori incerti una luce nuova apparisce foriera di redenzione e di progresso”. Il manifesto, dopo aver polemizzato con la rappresentanza comunale che “non è stata mai capace di provvedere ai nostri bisogni ed alle esigenze della vita moderna progredita” passava ad illustrare, sinteticamente, il programma della lista democratica “che dovrà portare Frosinone al suo giusto posto, per dare l’acqua potabile perenne, la luce elettrica, le scuole, le industrie; per formare la coscienza delle umili classi e far risorgere con la educazione delle masse questo dimenticato lembo di Ciociaria”.
Il risultato finale delle elezioni del 9 luglio 1905 fu decisamente favorevole al “Blocco democratico” che si aggiudicò ben cinque dei dieci seggi per cui entrarono in Consiglio comunale i socialisti Domenico Marzi e Luigi Valchera, i repubblicani Angelo Galloni e Benedetto Pantanelli e il radicale Antonio Vivoli. Per i “cattolici” furono eletti Giacinto Tesori, Gaetano Cacciavillani e Giovanni Battista Minotti e, infine, per i monarchico-liberali Antonio Parisini e Luigi Passerini. Il successivo 19 luglio il nuovo Consiglio comunale, presenti 24 consiglieri, con 16 voti su 23 votanti e un astenuto, elesse, per l’ennesima volta, il sindaco della città nella persona di Giovanni Battista Grappelli. L’unico voto di astensione venne dall’avvocato Domenico Marzi che aveva fatto pubblicamente professione di fede socialista, assicurando che la sua opera di consigliere comunale sarebbe stata sempre rivolta alla tutela degli interessi delle classi diseredate. L’altro eletto socialista, l’avvocato Luigi Valchera, assente per motivi di studio da Frosinone, fece pervenire da Lipsia (Germania) un telegramma che fu letto in apertura della seduta: “Presente voterei per chi mi assicuri attuazione programma permettente a Frosinone di non restare del tutto insensibile al movimento umano ascendente”. Nella stessa seduta vennero scelti anche gli assessori effettivi nelle persone del notaio Giuseppe Bracaglia con 15 voti, dell’avvocato Antonio Vivoli (15), dell’avvocato Giacinto Scifelli (19), del commerciante Benedetto Pantanelli (15) e, come assessori supplenti, dell’assicuratore Giuseppe Calderari e del professore Silverio De Palma.
“Il responso delle urne - scrisse qualche giorno dopo “Il Popolano” commentando i risultati del voto - ha gettato lo scompiglio nelle file monarchico-clericali e la città ha dimostrato all’evidenza che, nonostante le male arti di certi spiriti maligni, conserva la nobile tradizione di indipendente e liberale. Dalla lotta del 9 luglio, che resterà memoranda nella storia cittadina, i clericali e i monarchici sono usciti battuti; i primi con un’insignificante affermazione, i secondi con una sterilità di suffragi tali da costringerli a raccapezzare qualche cosa da tutti i partiti. È toccata peggior sorte all’Amministrazione che presentava la povera scheda degli uscenti i quali sono usciti e per sempre!
“L’affermazione di ‘marxisti e mazziniani’ in quest’ultimi suffragi popolari - chiudeva con un certo entusiasmo il giornale - è la prima che a Frosinone rappresenti al concreto il movimento proletario che s’avanza: dalla città nostra muoverà lo spirito redentore e fra qualche anno la nostra regione sarà libera come la sospira il popolo e come la faranno gli elettori”.
Dall’agosto del 1905 al maggio dell’anno successivo, l’Amministrazione comunale conobbe un lungo periodo di scarsa attività, tanto che” Il Popolano” del 16 marzo 1906 arrivò a scrivere che: “Il Consiglio seguita a farsi cullare nella serena apatia del dolce far niente. Non si parla di convocazione, non si accenna a nessuna possibile discussione di questioni amministrative, si evita persino il ricordo di certi scottanti problemi”. Le questioni più urgenti che, in particolare, non venivano affrontate con la dovuta determinazione, nonostante le continue proteste della cittadinanza, erano ancora i ritardi nell’inizio dei lavori per l’impianto dell’illuminazione elettrica in città e la carenza dell’acqua potabile nelle fontane pubbliche a causa della scarsa funzionalità della Macchina della Fontana.
Quei due problemi furono all’origine, ancora una volta, di una lunga crisi amministrativa che si aprì il 10 agosto con le ennesime dimissioni del sindaco Grappelli, rassegnate con una lettera indirizzata alla Giunta, che venne invitato dagli esponenti della sua maggioranza a desistere dall’abbandonare la carica di primo cittadino. Una riunione valida del Consiglio comunale si poté tenere, finalmente, il 7 settembre: ad essa parteciparono 18 consiglieri che assicurarono, così, il numero legale. Domenico Marzi, il primo a prendere la parola, dopo aver illustrato un ordine del giorno predisposto dal gruppo socialista in cui si sosteneva che fosse fortemente dannoso alla soluzione dei problemi di Frosinone ogni ulteriore indugio nell’accettare le dimissioni di Grappelli, elencava le emergenze cittadine: “1. Elevazione dell’acqua con l’energia elettrica; 2. Miglioramento dei salariati; 3. Sistemazione del cimitero; 4. Adattamento del Palazzo Guglielmi a edificio scolastico; 5. Che è doveroso ricondurre in patria le Spoglie di Nicola Ricciotti dando ad esse degna sepoltura”. Nessuna delle proposte del consigliere socialista venne accolta dagli altri gruppi e, in conclusione della seduta, il Consiglio comunale respinse le dimissioni di Grappelli con 14 voti contro i 4 dei tre socialisti più Francesco Bragaglia.
Il 26 settembre si tenne la seduta decisiva: il sindaco Grappelli insistette, per lettera, con le sue dimissioni e si passò, quindi, alla elezione dal suo successore. Con 18 consiglieri votanti sui 21 presenti, risultò eletto Domenico Antonio Guglielmi che riportò 16 voti mentre Giacinto Scifelli ne ebbe solo uno. Dall’urna uscì anche una scheda bianca mentre i socialisti Marzi, Valchera e Spaziani, come avevano preannunciato, si astennero dal votare.
La sera del 12 ottobre si riunì il Consiglio comunale per ascoltare le comunicazioni del nuovo Sindaco e per l’elezione della Giunta. Guglielmi, in apertura dei lavori, dopo i ringraziamenti di rito, dichiarò che “sebbene per la tarda età, per la recente dolorosa disgrazia della moglie e per le note simpatie che avevano sempre circondato il precedente sindaco, fosse stato un po’ indeciso d’accettare il mandato, pure alla fine vi si era sobbarcato, perché non si dicesse che l’aspra lotta che gli era stata fatta gli aveva fiaccata l’energia necessaria per presiedere alla pubblica cosa”. A conclusione della seduta il Sindaco invitò i consiglieri ad eleggere quattro assessori effettivi e due supplenti in sostituzione dei dimissionari. Presenti 24 consiglieri, alla prima votazione vennero eletti Benedetto Pantanelli con 14 voti e Giuseppe Bracaglia con 13. In seconda votazione furono scelti Giacinto Scifelli e Silverio De Palma, entrambi con 13 voti. Infine, come assessori supplenti, risultarono eletti Gaetano Cacciavillani con 16 voti e Giacinto Tesori con 15.
Ma l’elezione a Sindaco della città dell’antico Gonfaloniere pontificio incontrò molte perplessità da parte dell’opinione pubblica cittadina ed anche di alcuni membri della Giunta e del Consiglio comunale, tanto che già all’indomani dell’insediamento di Guglielmi, due assessori, Benedetto Pantanelli e Giacinto Scifelli, presentarono le loro dimissioni dalla carica. Il Consiglio comunale, nella seduta del 20 ottobre, prese atto della rinuncia dei due assessori e anche delle dimissioni del consigliere Angelo Galloni, presentate per motivi personali già nel mese di agosto. Qualche giorno dopo Scifelli si dimise anche dalla Presidenza della Congregazione di Carità.
Ma come era potuto accadere che il capo dei clericali frusinati, nonché ex primo cittadino di Frosinone all’epoca del Governo pontificio, potesse diventare, a distanza di ben 36 anni, Sindaco di una città che veniva considerata una delle più laiche e liberali dell’intera provincia romana? Due elementi avevano giocato a favore di Guglielmi. Il primo era l’avvicinamento in atto fra liberali e cattolici in funzione antisocialista che si era già delineato, a livello nazionale, nelle elezioni politiche del 1904 e, a livello locale, nelle elezioni amministrative del 1905. Il secondo elemento, sicuramente più determinante, fu costituito dalla grande popolarità acquistata da Guglielmi qualche mese prima di essere eletto quando, in memoria della consorte Adelaide De Santis che era morta il 12 maggio 1906, manifestò l’intenzione di donare al Municipio il grande palazzo di oltre 70 stanze di sua proprietà, sito in Via Rattazzi, per adattarlo a edificio scolastico riservando a sé solo i sotterranei, i granai e la propria abitazione.
L’atto di generosità di Guglielmi aveva generato, improvvisamente, uno spontaneo moto di simpatia nei suoi confronti che fece passare in secondo piano tutti i suoi trascorsi di fedelissimo di Pio IX. Però la delusione generale sarà grandissima quando, appena qualche mese dopo, Guglielmi deciderà inaspettatamente di revocare la sua generosa donazione a favore della collettività frusinate.
 
“DALLA VITTORIA DEL ‘BLOCCO POPOLARE’ ALLE ELEZIONI DEL 12 LUGLIO 1910 ALL’INAUGURAZIONE DEL MONUMENTO A NICOLA RICCIOTTI”
 L’ex gonfaloniere Domenico Antonio Guglielmi ricoprì la carica di primo cittadino di Frosinone per circa nove mesi: dalla fine di settembre del 1906 a tutto il giugno del 1907 quando un decreto prefettizio stabilì la data di nuove elezioni comunali per il 7 luglio per rimpiazzare il terzo del Consiglio da rinnovarsi e cinque consiglieri scaduti per anzianità. Le due le liste contrapposte che si presentarono per contendersi gli 800 elettori di Frosinone erano guidate, rispettivamente, dal sindaco uscente Guglielmi e dall’ex sindaco Grappelli. In entrambe le liste erano presenti candidati appartenenti ai vari schieramenti politici e ideali della città: il solo discrimine era dato dalla collocazione dei singoli aspiranti al seggio consiliare rispetto al deputato “forestiero” o a una candidatura “ciociara” nelle precedenti elezioni politiche del 1904.
Dopo una breve ma accesa campagna elettorale che fece scrivere a un nuovo giornale cittadino, l’”Indipendente”, diretto dall’avvocato radicale Leone Vivoli, che a Frosinone “mai si era vista una simile lotta nelle elezioni amministrative”, Il voto del 7 luglio premiò la lista capeggiata dall’ex sindaco Grappelli: il risultato delle votazioni, infatti, era stato molto sfavorevole per l’ex gonfaloniere pontificio, e sindaco uscente Guglielmi che, su undici candidati, ne vide eletti solo tre mentre ben otto seggi vennero conquistati dagli amici di Grappelli. Il successivo 22 luglio il Consiglio comunale fu convocato per l’insediamento degli eletti per il 7 luglio. Si trattava, secondo l’ordine dei voti riportati, di Giovanni Battista Grappelli, Leone Vivoli, Antonio Turriziani, Domenico Antonio Guglielmi, Luigi De Bernardis, Luigi Scifelli, Angelo Maria De Bernardis, Emilio Diamanti, Pietro Scala, Umberto Cioccolani e Pio Giansanti. Subito dopo si passò all’elezione del nuovo primo cittadino nella persona dell’avv. Giacinto Scifelli che ebbe 21 voti mentre i socialisti Domenico Marzi, Pietro Scala, Luigi Spaziani e lo stesso Scifelli si astennero dal votare. Qualche giorno dopo, il 31 luglio, il Consiglio comunale elesse anche la nuova Giunta. Furono nominati come assessori effettivi Silverio De Palma con 23 voti, Benedetto Pantanelli (21), Giovanni Battista Grappelli (19) e Leone Vivoli (19) e, come supplenti, Ettore Tinelli (21) e Alessandro Renna Iannini (20).
Appena eletto sindaco Giacinto Scifelli si trovò subito ad affrontare l’annullamento dell’acquisizione dei locali di Via Rattazzi a suo tempo donati da Domenico Antonio Guglielmi per sistemarvi le scuole cittadine. L’ex sindaco aveva fatto pervenire, infatti, un atto di revoca della donazione insieme alle sue dimissioni da consigliere comunale chiaramente dettate dalla forte delusione per la sconfitta elettorale. Nel corso del biennio 1907-1908 per due volte il sindaco Scifelli rassegnò le sue dimissioni da sindaco per questioni relative “all’intricata e penosa situazione finanziaria del Comune” ma lo “spettro” dell’arrivo del Regio Commissario, invocato con forza dall’opposizione consiliare, fu decisivo perché entrambe le crisi si chiudessero con il ritiro da parte di Scifelli delle sue dimissioni. La soluzione data all’ultima delle due crisi si rivelerà efficace in quanto l’amministrazione guidata dal sindaco Scifelli avrà una vita abbastanza tranquilla fino alla sua scadenza naturale prevista per il 1910.
Le nuove elezioni amministrative vennero in effetti convocate per il 12 luglio 1910 “per la scadenza del triennio sindacale di Giacinto Scifelli e per la rinnovazione di 14 consiglieri”. Due giorni dopo, il 5 giugno, “Il Popolano” pubblicò un appello “per riunire ad abbracciare tutte le forze democratiche locali il cui dovere è da gran tempo tracciato: combattere tutte le forme di ignoranza e di prepotenza da secoli annidate nella maggior parte delle amministrazioni degli enti locali del nostro circondario”. All’invito aderirono subito la Sezione del Partito Socialista, l’Associazione Radicale Frusinate, appena costituitasi per l’impegno di Leone Vivoli, i tipografi della Federazione dei Lavoratori del Libro con il loro presidente Zenobio Sbardella, della Federazione degli Impiegati Comunali e degli Enti locali e dell’Unione Magistrale di cui era segretario Vincenzo Minotti, la Società Operaia di Mutuo Soccorso con il suo presidente Benedetto Ottaviani.
Intanto il gruppo dirigente della Sezione socialista di Frosinone, che era stato rinnovato il 9 luglio 1909 con segretario l’operaio tipografo Gino Bugani e consiglieri Giovanni Ferretti, Giovanni Bracaglia, Luigi Pafetti, Antonio Grandi e il maestro elementare Carlo Chiapponi che venne anche nominato nuovo corrispondente dell’”Avanti!”, alla vigilia delle elezioni comunali, si fece promotore della formazione di un “Blocco popolare democratico” in grado di sconfiggere “tutto quel vecchiume di uomini e di sistemi, e tutte le forme di ignoranza e di prepotenza da secoli annidate nella maggior parte delle amministrazioni degli enti locali del Circondario”. Nacque così anche a Frosinone, come in tante altre città italiane in quella scadenza elettorale, un “Blocco popolare democratico” che espresse una lista di candidati, appartenenti alla Sezione socialista e all’Associazione radicale, alcuni dei quali anche aderenti alla Loggia massonica cittadina. Al “Blocco” si contrapponeva la lista dell’“Unione Volsca” della quale facevano parte, oltre al sindaco uscente Giacinto Scifelli, Francesco Bragaglia, Giuseppe Bracaglia, Angelo Maria De Bernardis, Erminio Facci, Giuseppe Ferrante, Alessandro Kambo, Emilio Rea, Alessandro Renna Iannini, Arcangelo Silvestri e Antonio Stagni, quasi tutti di orientamento clerico-moderato.
Nelle giornate della pur breve campagna elettorale la contesa tra i sostenitori delle due liste fu assai vivace e, in particolare, i giornali locali con le edizioni speciali, e alcuni numeri unici, tennero accesi gli animi fino al giorno delle votazioni quando non mancarono scontri, anche davanti ai seggi elettorali, con scambi di insulti e minacce di querele. “Alla porta delle sezioni elettorali - scriveva ‘Il Popolano’ - grande animazione per tutta la giornata e, a sera, quando si procede alla proclamazione degli eletti la sala è piena di elettori bloccardi, gli altri, se la sono squagliata. Finita la lettura del verbale un applauso fragoroso ed un formidabile grido di ‘Viva il Blocco’ fa rintronare la sala. Il tempo cattivo impedisce la dimostrazione che ciò nonostante viene improvvisata dal numeroso gruppo di Piazza Garibaldi, il centro socialista di Frosinone, al canto dell’’Inno dei Lavoratori’ e dell’’Internazionale’”. Il “Blocco popolare democratico” si era aggiudicato ben 10 dei 14 seggi in palio eleggendo Ettore Tinelli con 386 voti, Luigi Spaziani (377), Giovanni Ferretti (295), Giacomo Bartoli (294), Gabriele Gabrielli (274), Gaetano Pesci (272), Ernesto Casali (264), Cesare De Cesaris (263), Pietro Valle (260) e Gaetano Carboni (245). Della lista dell’Unione Volsca risultarono eletti Giacinto Scifelli con 392 voti, Pietro Gizzi (310), Giuseppe Ferrante (269) e Angelo Maria De Bernardis (245).
I consiglieri comunali del “Blocco popolare” si orientarono verso la proposta già avanzata dai socialisti in una loro assemblea tenuta il 19 giugno in cui, all’unanimità, avevano deciso di proporre come nuovo sindaco di Frosinone l’avv. Leone Vivoli e una Giunta comunale composta da iscritti radicali e socialisti. Con questo indirizzo le forze della nuova maggioranza si presentarono alla riunione consiliare del 23 luglio con all’ordine del giorno l’elezione del Sindaco. Intervennero 24 consiglieri con i “bloccardi” al completo e, subito dopo la lettura del verbale della seduta precedente, prese la parola Giacinto Scifelli per ringraziare il Consiglio degli attestati di stima che gli erano stati tributati e per assicurare i colleghi che non sarebbe mancato il suo contributo, come consigliere, alla realizzazione dei progetti che aveva preparato. Si passò, subito dopo, alla elezione del Sindaco, carica alla quale venne eletto, come previsto, l’avv. Leone Vivoli con 23 voti e una sola scheda bianca.
Nel suo intervento il nuovo Sindaco, dopo aver rassicurato Scifelli sulla sua volontà di proseguire il programma di opere da lui iniziate e di condurle tutte a termine, espose sinteticamente le priorità della nuova amministrazione: “Anzitutto - proclamò Leone Vivoli - sincerazione della vera situazione finanziaria del Comune e poi, senza perdere tempo, provvedimenti immediati atti a rendere possibile la vita cittadina. Qui la vita costa più che in altri centri più grandi, e non ultima delle cause il bagarinaggio, che bisogna colpire senza pietà e senza preoccupazione morbose di popolarità. “Far inoltre scomparire da Frosinone quella patina nera che le dà l’aspetto di una grande sudiciona che da anni non conosce l’uso del sapone. Che diranno di noi le migliaia di forestieri che saranno qui il 9 ottobre per l’inaugurazione del Monumento a Nicola Ricciotti? Sradicare dai costumi popolari - concluse il Sindaco - tutto quanto ricordi i tempi di ‘Zi’ Titta Torturo’ (Mastro Titta, il boia ufficiale dello Stato pontificio, nda) e concentrare tutte le energie per prepararsi degnamente al grande avvenimento del 9 ottobre venturo”. A proposito dell’inaugurazione dell’opera d’arte di Ernesto Biondi, il sindaco Vivoli, rese noto che la cerimonia che era stata prevista per il 29 luglio, anniversario della fucilazione dell’eroe frusinate, si era dovuta rimandare a causa delle difficoltà organizzative causate dal rinnovo del Consiglio comunale. In una successiva riunione del Consiglio comunale, convocata il 19 agosto, il consigliere socialista Domenico Marzi, con 17 voti favorevoli sui 19 presenti, fu chiamato a ricoprire l’incarico di assessore all’Igiene e Sanità andando a sostituire Leone Vivoli nella Giunta cittadina in seguito alla sua elezione a Sindaco.
La Giunta del “Blocco popolare” sarà ricordata, soprattutto, per l’inaugurazione dell’opera monumentale di Ernesto Biondi dedicata a Nicola Ricciotti e ai Martiri della Libertà della Regione e per il grande successo delle manifestazioni che vennero organizzate in città per festeggiare l’avvenimento. L’aspirazione di intere generazioni di frusinati per il ritorno delle ceneri dell’eroe cittadino dalla lontana Calabria e l’erezione di una sua statua nella piazza principale della città si realizzò, finalmente, il 9 ottobre 1910.
Accompagnato dallo stesso Biondi era giunto a Frosinone, alla metà del mese di settembre del 1909, il gruppo di statue in bronzo degli eroi ciociari e le altre parti accessorie dell’opera scultorea. Il viaggio da Roma a Frosinone della pesantissima scultura, caricata a bordo di carri trainati da buoi, no nera stato agevole a causa delle piogge che avevano allagato in più punti la Casilina e, in prossimità di Frosinone, si dovette ricorrere ad altre coppie di buoi per tirare fuori i carri dal fango. Il gruppo statuario, appena arrivato in città venne ricoverato, provvisoriamente, nell’atrio del Palazzo della Sottoprefettura e diventò subito meta di numerosi visitatori. Intanto, all’inizio di gennaio del 1910 un’importante decisione venne adottata dal Consiglio comunale: su proposta di Domenico Marzi si deliberò, all’unanimità, il cambiamento di denominazione della Piazza del Plebiscito in Piazza della Libertà e del tratto di Via Rattazzi, da Piazza Cavour all’imbocco di Via XX Settembre, che prese il nome di Via del Plebiscito.
La sera del sabato 8 ottobre 1910, vigilia della cerimonia d’inaugurazione, il Palazzo comunale era tutto illuminato dalla luce elettrica mentre nella città c’era già una grande animazione. Fino a tarda ora si lavorò per addobbare finestre e balconi con le bandiere che il Comitato aveva fatto distribuire alla cittadinanza. Molti, nella notte, vegliarono nell’attesa febbrile del grande giorno. “È finalmente l’alba, alba nebbiosa che fa sperare una radiosa giornata di sole - scriveva “La Nuova Gazzetta Latina” aprendo la cronaca della giornata del 9 ottobre - Frosinone è animatissima perché i primi treni del mattino, numerose automobili, vetture e tutti i mezzi di locomozione hanno riversato a Frosinone una grande folla di popolo di tutte le gradazioni e classi sociali”. Mentre in Piazza della Libertà già si esibivano le Bande musicali di Alatri, Sora, Roccasecca dei Volsci e Sezze, nel largo viale di S. Antonio ordinavano il corteo Augusto Diamanti, Domenico Marzi e Gabriele Gabrielli. Alle 11, finalmente si mosse “lentamente e solennemente l’imponentissima colonna”. Il corteo era aperto dal Concerto musicale di Frosinone immediatamente seguito dalla numerosa rappresentanza dell’Amministrazione provinciale di Roma, del Comune di Roma e del Comune di Frosinone con il Sindaco Vivoli e quasi tutti gli assessori, i consiglieri e il vessillo comunale.
Dopo aver percorso le principali strade cittadine il corteo giunse in piazza “poco prima di mezzogiorno - come scriveva da parte sua il giornale romano “La Tribuna” - fra un tripudio di bandiere di enti e di associazioni, con l’intervento di tutti i Gonfaloni dei Comuni del Lazio ed un grandioso, affettuoso reverente omaggio di popolo, i gloriosi resti di Nicola Ricciotti, restituiti alla città natale, furono deposti nel famedio di marmo rosso di Verona, che sorge ai piedi del monumento inaugurato in Piazza del Plebiscito che da quel giorno si chiamerà Piazza della Libertà”. “E la solenne cerimonia è finita – scriveva da parte sua “La Nuova Gazzetta Latina” di Alessandro Fortuna - la piazza si sfolla lentamente e i numerosi forestieri si riversano nelle trattorie, nelle osterie, nei caffè della città. Al Ristorante Garibaldi e alla Trattoria Bohéme si fa la coda in attesa di potersi sedere a mangiare. Altri profittano dell’attesa per prendere una cartella della grande tombolata del pomeriggio”.
La celebrazione del 9 ottobre 1910 e i festeggiamenti dei giorni successivi furono un grande successo dell’Amministrazione del “Blocco popolare” guidato da Leone Vivoli. Il 19 ottobre il consigliere comunale Giacinto Tesori propose all’Assemblea un solenne voto di plauso e di ringraziamento al Sindaco per la splendida figura che aveva fatto fare alla città di Frosinone, sia a Cosenza quando era andato a rilevare i resti di Nicola Ricciotti, sia a Frosinone in occasione dei festeggiamenti per la inaugurazione del Monumento. Tutti i consiglieri comunali si associarono alle parole di Tesori e con un lungo applauso approvarono la sua proposta. Ma ci fu anche qualche nota stonata in quella memorabile giornata le cui conseguenze segneranno, come vedremo, la vita politica e amministrativa della città nei mesi successivi: da una parte il clero e i cattolici frusinati che si astennero da ogni partecipazione ufficiale alle manifestazioni limitandosi a far dire una messa solenne nella Cattedrale cittadina e, sul versante dei moderati, la diffusione, proprio il 9 ottobre, di un manifesto del deputato monarchico Carboni che aveva preannunciato la sua non partecipazione ai festeggiamenti “perché della manifestazione patriottica si vuol fare una dimostrazione del partito repubblicano”.
 
“LA GIUNTA DEL ‘BLOCCO POPOLARE’ SOTTO ATTACCO E LA RIVINCITA ‘CLERICO-MONARCHICA’ DEL 1° SETTEMBRE 1912”
L’attività dell’Amministrazione comunale guidata dal “Blocco democratico popolare”, eletta il 12 giugno 1910, fu fortemente condizionata dall’attacco portato ad essa dal deputato monarchico Vincenzo Carboni sin dai giorni della grande manifestazione per l’inaugurazione del Monumento a Nicola Ricciotti. La rottura politica tra il deputato monarchico di Frosinone, Vincenzo Carboni, e il sindaco Leone Vivoli e la sua Giunta si era aperta proprio alla vigilia della cerimonia del 9 ottobre del 1910 con una lettera inviata dal deputato ai sindaci del suo collegio elettorale. “L’inaugurazione del Monumento a Nicola Ricciotti – si era lamentato Carboni - preparata con un significato di glorificazione patriottica, in modo da abbracciare tutte le gradazioni del principio liberale democratico, in questi ultimi giorni, per interventi e complicazioni estranee al nostro Circondario, ha degenerato in una manifestazione repubblicano-massonica, per la quale è stato financo ritirato un invito al Governo già fatto ed accettato”. Il deputato si riferiva ad un suo invito personale al Presidente del Consiglio dei ministri, Luigi Luzzatti, non concordato con il Comitato Pro-Ricciotti a presenziare alla cerimonia dell’inaugurazione alla quale, nonostante avesse assicurato il suo arrivo a Frosinone, non era poi intervenuto.
Alla luce dell’improvvisa presa di posizione del deputato, il sindaco Vivoli convocò una riunione straordinaria della Giunta comunale per la sera del 7 ottobre, proprio alla vigilia della grande manifestazione per il Monumento, mentre in tutta la città fervevano gli ultimi preparativi per il corteo dell’indomani. Ai membri della Giunta il Sindaco riferì sulla questione dell’invito rivolto al Presidente Luzzatti e, ritenendo di avere una qualche responsabilità per la situazione che si era venuta a creare, comunicò la sua intenzione di rassegnare immediatamente le dimissioni. Il Sindaco aggiunse poi che considerando che aveva già invitato tutti i sindaci del Circondario per la mattina del 9 ottobre, riteneva opportuno rimandare la presentazione delle sue dimissioni a conclusione delle “feste Ricciottiane”. A nulla valsero i tentativi di conciliazione fra le parti a causa dell’insistenza dell’on. Carboni nella sua richiesta delle dimissioni immediate del Sindaco il quale, alla fine, replicò che, poiché le sue dimissioni dopo i festeggiamenti non avrebbero comunque risolto la situazione, aveva deciso di rimanere al suo posto.
Con le sue prese di posizione, rese pubbliche proprio a ridosso dei grandi festeggiamenti popolari in onore di Nicola Ricciotti, l’on. Vincenzo Carboni e i suoi più stretti collaboratori e simpatizzanti ruppero ogni rapporto non solo con i membri del Comitato Pro-Ricciotti ma con tutti i partiti del “Blocco popolare” che pure erano stati determinanti per la sua elezione alla Camera dei deputati poco più di un anno prima. Così, a distanza di pochissimi mesi dalla vittoria elettorale del 12 giugno 1910, la Giunta Vivoli venne, così, a trovarsi sotto l’attacco concentrico delle forze conservatrici cittadine estromesse per la prima volta dal governo della città e, anche, di alcuni consiglieri comunali, come Tinelli e De Bernardis, che pure erano stati eletti nella lista di maggioranza. Le stesse riunioni del Consiglio comunale verranno disertate per quasi due anni, a partire dal gennaio del 1911, dai consiglieri legati all’on. Carboni per cui fu possibile assicurare il governo della città solo ricorrendo a sedute di seconda convocazione a causa delle frequenti mancanze del numero legale.
Nonostante la poco favorevole condizione politica e amministrativa, che si protrarrà per tutti i due anni della sua vita, la Giunta Vivoli, consapevole che nella città si erano create molte attese per la nuova amministrazione democratica, iniziò subito a lavorare sulla base del programma che il “Blocco popolare” aveva presentato nella campagna elettorale I nuovi amministratori si trovarono subito ad operare in una situazione di grave emergenza sanitaria per una gravissima epidemia di colera che si era diffusa in Italia già nell’estate del 1910 per contrastare la quale a Frosinone vennero emanate dal sindaco Vivoli una serie di misure preventive a cominciare da ispezioni nei magazzini e nelle rivendite di generi alimentari. Alla fine dello stesso anno si registrò a Frosinone anche una eccezionale diffusione della tigna che riportò all’ordine del giorno la necessità di istituire un ospedale per i “tignosi” mentre si provvedeva, nell’immediato, a sistemare un lazzaretto prima nel casino Piccirilli e poi nel casino Guglielmi, entrambi nella periferia della città. Contro la diffusione della tigna e dell’epidemia colerica, che registrò una forte recrudescenza all’inizio del 1911, l’Amministrazione comunale fu impegnata nel coordinamento dei soccorsi alla popolazione e, per impedire il propagarsi dei due morbi, decise la chiusura delle scuole e del mercato del giovedì per alcune settimane. Questa drammatica situazione sanitaria della città fece rispolverare dal nuovo Assessore all’Igiene, l’avvocato Domenico Marzi, il progetto redatto il 1° aprile 1909 per una nuova fognatura cittadina “in luogo di quella esistente assai imperfetta, incompleta e inadatta”.
Nel campo del trasporto pubblico si andò a concretizzare l’antica aspirazione di un collegamento ferroviario tra la Stazione di Frosinone e la frequentatissima città termale di Fiuggi. Il 7 luglio 1910 venne firmata la concessione alla ditta “Ing. Antonio Clementi” per la costruzione e l’esercizio della linea ferroviaria a trazione elettrica Roma-Fiuggi mentre nel marzo dell’anno successivo fu sottoscritta la convenzione tra il Ministero del Tesoro e dei Lavori pubblici e il comm. Giuseppe Meneda, presidente della concessionaria “Società Anonima delle Ferrovie Vicinali”. A Frosinone, intanto, dall’inizio del 1911 era entrato in attività, per la prima volta, il servizio automobilistico tra il centro cittadino e la Stazione ferroviaria anche se, per qualche tempo, il collegamento fu oggetto delle critiche dei giornali locali e della stessa popolazione per la sua scarsa efficienza. Nel campo dei Lavori pubblici la Giunta Vivoli, già poco dopo il suo insediamento, programmò una serie di interventi per migliorare lo stato delle strade interne e delle piazze pubbliche, per la pavimentazione del Piazzale della Stazione con basoli alla romana, per l’illuminazione di vari punti oscuri della città e per la sistemazione e l’ampliamento del Cimitero comunale.
L’esperienza del “Blocco democratico popolare”, cominciata nel giugno del 1910, finì a metà del 1912 dopo circa due anni di governo contrassegnati da nuovi indirizzi in tutti i campi della vita amministrativa ma anche fortemente condizionati da alcune defezioni interne collegate al “caso Carboni”. Il 16 febbraio, si tenne una riunione del Consiglio comunale con 16 consiglieri presenti su 30. Il sindaco Vivoli deplorò l’ennesima mancata partecipazione di quella parte dei consiglieri, tranne uno o due, che pure continuava a rivendicare la formazione di una nuova Giunta municipale per cui ritenne di non aprire la discussione sulla nomina dei nuovi Assessori passando, invece, a illustrare il Bilancio di previsione per il 1911 che venne poi approvato con 15 a favore e uno contrario sui 29 consiglieri in carica.
Il successivo 23 febbraio si arrivò, finalmente, a una riunione quasi al completo del Consiglio comunale: era stato raccolto, infatti, l’appello del Sindaco ai due schieramenti di trovare un’intesa per evitare l’arrivo del Commissario prefettizio. L’accordo raggiunto, che prevedeva l’ingresso in Giunta di alcuni consiglieri dell’opposizione, fu positivamente commentato sia da Leone Vivoli che da Domenico Marzi. Il Sindaco così si espresse: “Agli attuali Assessori e Sindaco importa una cosa sola: che la nuova Giunta abbia per base i criteri di quelli che precedentemente la componevano: cioè pensiero liberale, principi anticlericali e sentimento democratico nell’opera di elevamento civile e morale della città”. Marzi, da parte sua, volle sottolineare che “Il desiderio di pacificazione e di permanenza del pensiero democratico a Palazzo Ciceroni fece sì che le trattative per la composizione delle divergenze consiliari vennero riprese”.
Questa situazione di tregua si protrasse fino al 27 giugno 1912 quando il Sindaco comunicò alla Giunta comunale che il Sottoprefetto gli aveva recapitato una lettera di dimissioni inviata al Prefetto di Roma da parte di 11 consiglieri comunali. I sottoscritti - avevano scritto i dimissionari - riconfermano la loro sfiducia nell’Amministrazione Comunale in carica che non rappresenta la maggioranza del corpo elettorale e per dar agio al medesimo di pronunziarsi con nuove elezioni rassegnano le proprie dimissioni da consiglieri in data 25 giugno 1910”. La lettera portava le firme di Angelo Maria De Bernardis, Luigi De Bernardis, Pio Giansanti, Pietro Gizzi, Giovanni Battista Grappelli, Benedetto Pantanelli, Alessandro Renna Iannini, Giacinto Scifelli, Luigi Scifelli, Ettore Tinelli e Pietro Valle. La Giunta, essendo già note le ragioni per le quali gli 11 consiglieri erano da tempo assenteisti, si espresse, all’unanimità, per la presa d’atto della volontà dei dimissionari. Fra essi, come fece notare “Il Popolano”, era presente tutta la dirigenza della Banca Popolare Frusinate: il Presidente, il Direttore, un fratello del Direttore, il suocero del Segretario e padre dell’Impiegato contabile, un Consigliere d’amministrazione e un forte scontista.
Con le dimissioni degli undici consiglieri comunali il numero complessivo dei posti resisi vacanti per varie ragioni arrivò a 16 per cui si rese necessaria una tornata di elezioni amministrative parziali che venne fissata per il 1° settembre del 1912. Due furono i raggruppamenti che presentarono liste di candidati: uno a favore e uno contro l’Amministrazione in carica. Il primo schieramento vedeva la presenza, insieme ai maggiori esponenti politici del “Blocco popolare”, di alcune candidature della Lega contadina e del Sindacato dei cantonieri provinciali. La formazione avversa, costituita, oltre che dai seguaci dell’on. Carboni e dagli uomini della Banca Popolare, era composta, come scriveva un giornale romano, “da tutti i preti, da tutti i proprietari e da gran parte dei commercianti e negozianti”. La lotta tra il partito al potere e quello dei dimissionari si fece subito infuocata con accuse e ritorsioni reciproche nel corso dei comizi, sempre affollati, nelle piazze cittadine, nei raduni degli amici di Carboni nel Teatro Isabella e di quelli di Vivoli che si riunivano nella sede della Lega contadina in Via Rattazzi.
Lo scontro elettorale si concluse con la vittoria dei sostenitori del deputato Carboni: infatti sui 783 votanti il primo degli eletti della lista clerico-monarchica ebbe 520 voti mentre il primo dei candidati del “Blocco popolare” ne riportò 169. In seguito a quel risultato il Sindaco Vivoli fece pubblicare, immediatamente, un manifesto annunziante le sue dimissioni. Gli eletti di quella tornata amministrativa, che si insediarono il 21 settembre, furono Giuseppe Bracaglia, Francesco Bragaglia, Luigi Celletti, Angelo Maria De Bernardis, Luigi De Bernardis, Filippo Fontana, Giovanni Battista Grappelli, Benedetto Pantanelli, Pietro Papetti, Alessandro Renna Iannini, Giuseppe Rea, Giacinto Scifelli, Luigi Scifelli, Ettore Tinelli e Pietro Valle. In apertura della prima seduta del nuovo Consiglio comunale il presidente dell’assemblea, Francesco Bragaglia, rivolse “un caldo saluto agli eletti, suoi compagni di lotta, esprimendo la fiducia che, alla imponente manifestazione della cittadinanza, corrisponderà degnamente l’opera dei suoi nuovi rappresentanti”. Subito dopo, pur in assenza del Sindaco e degli Assessori effettivi e supplenti ancora in carica, vennero accettate le loro dimissioni rassegnate, a suo tempo, nelle mani del Prefetto di Roma. Lasciarono così, definitivamente, il Consiglio il sindaco Leone Vivoli, gli assessori Gaetano Cacciavillani, Cesare De Cesaris, Domenico Marzi, Luigi Valchera, Gabriele Gabrielli e Giovanni Ferretti e i consiglieri Giacomo Bartoli, Nicola Casali, Umberto Cioccolani, Giulio Pafetti, Pietro Scala, Luigi Spaziani, Giacinto Tesori e Antonio Vivoli.
Per ricoprire i seggi rimasti vacanti a seguito delle dimissioni dei consiglieri del “Blocco popolare”, si dovette indire una seconda tornata elettorale che fu fissata per il 3 novembre dello stesso anno. Le nuove elezioni suppletive si tennero senza alcuna lista di opposizione per cui il concorso degli elettori fu molto scarso. I 15 nuovi eletti, tutti “carboniani” che per la gran parte entravano per la prima volta in Consiglio comunale erano Francescantonio Alviti, Pietro Altobelli, Gaetano Carboni, Giuseppe Carboni, Gerardo Carpico, Michele Castaldi, Pietro Gizzi, Giovanni Fontana, Giulio Lattanzi, Cesare Marchioni, Raffaele Scappaticci, Andrea Spinetti, Vincenzo Testa, Alberto Vespasiani e Giuseppe Vivoli. Il nuovo Consiglio comunale si riunì, per la prima volta, il 14 novembre con all’ordine del giorno l’insediamento dei consiglieri appena votati e per l’elezione del Sindaco e della Giunta comunale. Dopo pochi e brevi interventi si passò alla nomina del nuovo sindaco della città: con 26 voti favorevoli e una sola scheda bianca sui 27 presenti, fu eletto Giacinto Scifelli che era già stato alla guida del Comune dal luglio 1907 al maggio del 1910. Subito dopo venne eletta, all’unanimità, la nuova Giunta comunale con Giulio Lattanzi, Alberto Vespasiani, Benedetto Pantanelli e Pietro Gizzi, assessori effettivi, Giuseppe Carboni e Giuseppe Vivoli, supplenti.
 
 
“LE CRISI DELLA MAGGIORANZA CLERICO-MONARCHICA E LE ELEZIONI AMMINISTRATIUVE GENERALI DEL 19 LUGLIO 1914”
 
Il secondo mandato di Giacinto Scifelli a primo cittadino di Frosinone durò dal 27 novembre 1912 al 29 giugno 1913 quando morì, sessantacinquenne, dopo una lunga malattia che lo aveva tenuto lontano dai suoi obblighi di sindaco fin dal 4 gennaio di quell’anno. Il 29 luglio, un mese dopo la sua scomparsa, la figura di Scifelli fu solennemente commemorata in una seduta straordinaria del Consiglio comunale dall’assessore alla Pubblica Istruzione Pietro Gizzi. “Dal luglio del 1907 - ricordò l’Assessore - con Scifelli sindaco per la prima volta di Frosinone, l’Amministrazione ha attraversato un periodo di maggiore operosità. Fu proprio durante il suo Sindacato che Frosinone passò dai fumosi lampioni a petrolio alla raggiante illuminazione elettrica, vera e propria pietra miliare nell’ascensione della nostra città e, sotto i suoi auspici, sentimmo i primi rombi ansanti delle automobili colleganti il nostro con i maggiori centri d’intorno e con la Stazione ferroviaria”. Nei pochi mesi della sua seconda esperienza di governo della città, Scifelli era riuscito, comunque, a predisporre il Bilancio preventivo per il 1913 e ad affrontare un’eccezionale epidemia di morbillo che si era diffusa a Frosinone nei mesi di novembre e dicembre del 1912 e che aveva causato oltre 170 casi di infezione, una decina di decessi e un forte aumento della mortalità infantile.
Intanto dal 17 marzo, data in cui l’assessore Luigi Lattanzi aveva assunto le funzioni di sindaco, la Giunta aveva fatto fronte all’amministrazione cittadina approvando vari provvedimenti come i Regolamenti sull’applicazione della tassa sui domestici e sulle vetture pubbliche e private, resa obbligatoria per i Comuni dove si era superato il limite legale della sovraimposta, il completamento dei lavori del Cimitero cittadino e l’approvazione del progetto di ampliamento e sistemazione dell’Ospedale civico “Umberto I” presentato dall’ingegnere Enrico Scifoni. Il 27 agosto il Consiglio comunale venne convocato, in seduta straordinaria, per decidere sulle dimissioni annunciate dall’intera Giunta comunale in seguito alla decisione dei membri della Commissione consiliare per i nuovi Regolamenti organici della segreteria municipale e dei salariati comunali, di rassegnare il loro incarico. Al termine di un lungo e vivace dibattito la maggioranza dei consiglieri riconfermò la fiducia nella Giunta composta da Giulio Lattanzi, Alberto Vespasiani, Benedetto Pantanelli, Pietro Gizzi, Giuseppe Carboni e Giuseppe Vivoli. Il 19 settembre successivo la questione delle dimissioni dei membri della Commissione tornò all’ordine del giorno del Consiglio comunale. Dopo un invito andato a vuoto per far recedere i membri della stessa dalla loro decisione, Lattanzi mise ai voti l’accettazione delle dimissioni che, però, non vennero accettate dal Consiglio.
Ormai fra i trenta consiglieri comunali, tra l’altro tutti appartenenti allo schieramento “clerico-monarchico”, si era determinata una frattura insanabile per cui si aprì una inaspettata crisi amministrativa che solo per l’approssimarsi delle elezioni politiche nazionali del 28 ottobre 1913 non venne ufficializzata. Durò circa tre mesi la stasi dell’attività amministrativa e quando il Consiglio comunale tornò a riunirsi, il 5 dicembre 1913, il sindaco facente-funzioni Giulio Lattanzi informò l’assemblea che la Giunta municipale, nella sua ultima adunanza, aveva deliberato, all’unanimità, di rassegnare le proprie dimissioni e lesse, poi, una dichiarazione a nome della Giunta stessa: “Le elezioni politiche che ci hanno fatto contenere da tempo l’impulso delle nostre coscienze - affermò Lattanzi - hanno, oltre che le aspirazioni di tutta la cittadinanza, premiata e legittimata la sopportazione imposta ai nostri temperamenti. L’evidente dissidio di sostanza e di forma manifestatosi dall’organico degli impiegati comunali fino alla nomina di innocue commissioni, ha determinato delle stasi dannose nella nostra vita amministrativa e ha affievolito l’entusiasmo dell’opera nostra”. Messe ai voti le dimissioni dell’intero esecutivo vennero accettate con 6 voti favorevoli e 5 contrari.
Il 29 dicembre successivo il Consiglio comunale elesse ancora una volta sindaco Giulio Lattanzi con 15 voti a suo favore e 8 per il consigliere che ormai era diventato il capo dell’opposizione, Pietro Gizzi. Appena eletto Lattanzi ricordò ai consiglieri che le elezioni generali amministrative non erano lontane per cui si limitò ad accennare, solamente, ad alcuni provvedimenti da affrontare immediatamente come il Regolamento per la concessione dell’acqua ai privati, il consolidamento dei contributi per il passaggio delle scuole elementari all’Amministrazione provinciale di Roma e la predisposizione del Bilancio preventivo per il 1914. Nella stessa seduta vennero eletti nella nuova Giunta municipale gli assessori effettivi Benedetto Pantanelli, Luigi De Bernardis, Alberto Vespasiani e Giuseppe Vivoli e i supplenti Pietro Valle e Gerardo Carpico. La composizione della Giunta irritò buona parte dell’opinione pubblica cittadina: “La Terra Nostra”, un nuovo giornale cittadino vicino al gruppo di opposizione, denunciò nel suo primo numero del 2 febbraio 1914, che al governo della città si trovava praticamente tutto lo stato maggiore della Banca Popolare Cooperativa Frusinate. Così scriveva il giornale: “Il sindaco Giulio Lattanzi, cassiere della Banca Popolare; della nuova Giunta fanno parte 1. Benedetto Pantanelli, suocero del segretario della Banca Popolare; 2. Alberto Vespasiani, sindaco della Banca Popolare 3. Luigi De Bernardis, contabile della Banca Popolare mentre il consigliere comunale e direttore della Banca Popolare, l’avv. Giuseppe Carboni, aveva volontariamente desistito da far parte della Giunta perché aveva subodorato che la sua posizione di direttore della banca, di giudice conciliatore, di assessore comunale, di fratello del deputato ecc. ecc. cominciava a diventare imbarazzante”.
I rapporti tra le due fazioni della maggioranza “carboniana” si incattivirono ulteriormente tanto che in occasione della riunione del Consiglio del 26 marzo, al momento della discussione di un’interpellanza di Pietro Gizzi sulla questione della residenza comunale, nell’aula consiliare esplosero dei veri e propri tumulti. Il consigliere Gizzi nell’illustrare la sua interpellanza, dopo aver richiamato l’importanza e l’urgenza di provvedere a dotare il Comune di Frosinone di una sede degna di un Capoluogo di circondario, aveva diffidato il Sindaco e la Giunta dal prendere in affitto il Palazzo Ciceroni, di proprietà della Banca Popolare. “Voi, Sindaco e Giunta - gridò Pietro Gizzi - contando ben quattro di voi, su sei, direttamente interessati all’economia della banca, non potreste neppure formare la maggioranza legale per procedere a un simile contratto”. L’avv. Giuseppe Carboni, direttore dell’Istituto di credito in questione, mentre cercava di confutare le affermazioni di Gizzi venne bruscamente interrotto dal consigliere che urlò: “Voi state difendendo interessi privati estranei all’amministrazione”. A quel punto scoppiò un primo tumulto che a stento venne sedato dall’intervento del Sindaco. Dopo aver affrontato i primi punti all’ordine del giorno della seduta si passò alla tanto attesa discussione sul Regolamento organico del personale della segreteria municipale. Al momento della votazione sull’articolo 28 scoppiò, improvviso, un alterco tra l’assessore Vespasiani e il consigliere Gizzi che coinvolse quasi tutti i presenti. La cronaca degli incidenti venne così riportata dalla “Terra Nostra”: “Dei vetri vanno in frantumi, le grida diventano assordanti; molti consiglieri e guardie si lanciano in mezzo riuscendo a non far afferrare i contendenti; e il Sindaco toglie la seduta tra i salaci commenti del pubblico…”.
A seguito degli incidenti nell’aula consiliare l’assessore Vespasiani decise di sfidare a duello il consigliere Gizzi e nominò come suoi rappresentanti l’impiegato di banca Agostino Gallina e l’avvocato Luigi Valchera mentre Gizzi si affidò agli avvocati Cesare Bragaglia e Adolfo Brettagna. “Ma non essendosi messi d’accordo i padrini - scriveva “Il Messaggero” di qualche giorno dopo - si è proceduto alla costituzione di un giurì d’onore che ha risolto la vicenda giudicando che il materiale raccolto dalle dichiarazioni dei primi e dai loro rappresentanti non consentiva una partita d’arme ed invitava i signori Vespasiani e Gizzi a stringersi la mano. “La pacificazione è avvenuta - concludeva il giornale romano - nelle ore pomeridiane di oggi in una sala del Circolo Angeloni, alla presenza del giurì e delle parti”. La successiva seduta del Consiglio comunale si tenne 18 aprile in un’aula gremita da un pubblico “accorso un poco per la curiosità di assistere a qualche nuovo movimentato episodio, un poco spinto dal desiderio di partecipare all’epilogo della discussione sull’organico degli impiegati e dei salariati”. Nel corso della riunione vennero finalmente approvati i due tanto contestati provvedimenti insieme al Regolamento per la distribuzione dell’acqua potabile e per il servizio degli acquedotti comunali.
L’imminente tornata elettorale amministrativa fu oggetto, alla fine del mese di giugno, di due articoli del giornale “La Terra Nostra”: “Siamo in alto mare - era scritto nel primo - le elezioni amministrative a suffragio allargato stanno scombussolando il paese e i mestieranti ne traggono profitto, mentre i partiti ne escono sconquassati. Non ci sono più distinzioni di pensiero o di azione; le elezioni sono diventate come una corsa, si dà la partenza e via all’impazzata per arrivare al traguardo. Chi arriva arriva; nella vertigine del correre i colori non si distinguono più. I democratici di ieri - scriveva ancora il giornale - sono i nazionalisti di domani, i moderati battuti diventano rivoluzionari; certi massoni vanno in chiesa a recitare il ‘confiteor’ e qualche prete muta il tre-pizzi col triangolo, illuso che l’occhio di Dio è sempre rappresentato così”. Nel secondo articolo dedicato alle elezioni comunali, il giornale nella rubrica “Cronaca di Frosinone” scriveva che “In quanto alle nostre elezioni se ne sono dette e scritte di cotte e di crude: c’è chi afferma che non ci sarà lotta; chi dice che è già venuta una riconciliazione fra l’opposizione e la cosiddetta maggioranza; chi conosce perfino i nomi dei candidati dell’una e dell’altra lista, con l’inclusione di preti in tonaca, di vecchi arnesi, di avvocati dall’accento non prettamente ciociaro. La verità è che nessuno ancora ne sa niente di preciso…”.
Le elezioni amministrative, che si tennero il 19 luglio, si svolsero secondo la nuova legge elettorale che aveva allargato il numero degli aventi diritto al voto e, in quella occasione, a Frosinone si tornò al rinnovo completo del Consiglio comunale dopo quasi venticinque anni di avvicendamenti parziali. Alla competizione parteciparono due liste, una formata dagli amici del sindaco uscente Lattanzi e, la seconda, dal gruppo di dissidenti passato all’opposizione con Pietro Gizzi nell’ultima fase della consiliatura. Al termine di una campagna elettorale molto accesa prevalse di gran lunga la prima delle due liste e il nuovo Consiglio comunale si riunì, per la prima volta, l’8 agosto per procedere all’insediamento degli eletti). In quella seduta, che si tenne all’indomani del 29 luglio 1914, data dell’inizio della Prima guerra mondiale, prese per primo la parola Giulio Lattanzi, che presiedeva l’assemblea, per auspicare che “nel momento torbido e triste che sta attraversando l’Europa, all’Italia sia risparmiata la necessità di una guerra sanguinaria ed in caso contrario che la stella d’Italia possa sempre risplendere di vivida luce e che l’antico valore delle armi italiane possa assicurare il trionfo del nostro diritto e la grandezza della patria”.
Pochi giorni dopo, il 13 agosto, il Consiglio tornò a riunirsi con all’ordine del giorno l’elezione del Sindaco e della Giunta comunale. Nonostante avesse disertato la riunione Giulio Lattanzi venne rieletto sindaco con 21 voti a favore e 6 schede bianche e vennero nominati anche gli assessori effettivi nelle persone di Alessandro Kambo, Benedetto Pantanelli, Alessandro Renna Iannini e Alberto Vespasiani e come supplenti Vincenzo Tesori e Pietro Valle. Il Sindaco, che nonostante il successo elettorale non prendeva più parte alle sedute consiliari, rassegnò più volte le sue dimissioni ma il Consiglio comunale le respingeva sistematicamente. La situazione di sospensione dell’attività amministrativa si trascinò fino al 14 ottobre quando il Consiglio fu chiamato a decidere sulle ennesime dimissioni di Lattanzi e di tutti i suoi assessori per “impellenti private ragioni” ma, in realtà, per il fallimento del tentativo di dar vita a una coalizione tra le due tendenze che si erano manifestate tra i trenta consiglieri comunali. Al termine della seduta il Consiglio prese atto della volontà espressa dal Sindaco e dagli Assessori e con 23 voti favorevoli e uno solo contrario). Un ultimo tentativo di ricomporre i contrasti interni al partito “carboniano”, per cui si era rinviata la nomina del nuovo esecutivo, si rivelò inutile e il 17 novembre il Consiglio elesse, con 12 voti favorevoli e tre schede bianche, un nuovo sindaco nella persona di Alessandro Renna Iannini, appartenente a una famiglia di grossi possidenti legata al passato Stato pontificio, e una Giunta comunale, completamente rinnovata, con gli assessori effettivi Gerardo Carpico, Walter Ceci, Cesare Marchioni e Luigi Scifelli, e i supplenti Giovanni Fontana e Vincenzo Tesori, quasi tutti, come il Sindaco, di orientamento clericale.
La debole soluzione della crisi amministrativa, conclusasi con il consenso di soli 12 consiglieri comunali su 30, fu ampiamente commentata da un nuovo giornale apparso a Frosinone il 22 novembre 1914: si trattava del “Grido della Folla”, firmato da Augusto Grandi che era stato l’ultimo direttore del “Popolano” di cui intendeva raccogliere l’eredità politica. Il giornale, tra l’altro, scrisse nel suo primo numero che “data la fisionomia del Consiglio comunale, il sindaco non poteva essere che Iannini o Ferrante, ambedue clericali, e che la scelta andò per il primo dei due. “Comunque una cosa è certa - sosteneva ancora il giornale - ed è sentita da tutti: che cioè il signor Iannini non sembrava affatto l’uomo che possa risolvere la grave crisi in cui si dibatte l’Amministrazione di Frosinone, per il suo carattere timido e riservato, incapace di qualsiasi iniziativa e di qualsiasi energica azione”. L’articolo del “Grido della Folla” si chiudeva con la chiamata in causa del deputato Vincenzo Carboni “nel cui nome e nel cui programma politico, sono state fatte le due ultime lotte politiche” e che “avere a qualunque costo o con qualsiasi sacrificio i suoi fautori a capo delle Amministrazioni del collegio, è stato sempre l’unico programma politico dell’on. Carboni, poco curante poi se questi cari amici sono preti o liberali, democratici o conservatori. Così l’interesse amministrativo del povero Comune è stato posposto a quello personale dell’on. Carboni”. Il 20 dicembre successivo lo stesso giornale dette notizia che solo pochi giorni prima, dopo lunghe esitazioni, Iannini aveva prestato giuramento: “Abbiamo così - sottolineava “Il Grido della Folla” - un sindaco clericale, fiancheggiato da tre assessori clericali e tre assessori indifferenti a qualsiasi credo politico, tutti amalgamati, però, dalla fede carboniana”.
 

“PER SOLI SETTE VOTI I BOLSCEVICHI NON CONQUISTANO IL COMUNE DI FROSINONE ALLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL 24 OTTOBRE 1920”

La prima riunione del dopoguerra del Consiglio comunale di Frosinone si tenne l’8 maggio 1919 con 17 presenti mentre, tra i 13 che non avevano risposto all’appello, alcuni erano morti in guerra e non ancora sostituiti. Per tutto il primo semestre del 1919 l’Amministrazione comunale fu quasi interamente assorbita dalla gestione dei calmieri per combattere l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. E proprio su questa attività si aprì, all’inizio del mese di agosto, una profonda crisi all’interno della stessa Giunta comunale.  Il 13 agosto, infatti, era stato convocato il Consiglio comunale con all’ordine del giorno le dimissioni del sindaco Giuseppe Ferrante, che era stato eletto nel corso del 1916, e degli assessori effettivi Cesare Marchioni, Walter Ceci, Francesco Bragaglia e Giovanni Fontana. Due giorni prima il Sindaco aveva indirizzato una lettera al Consiglio con cui aveva rassegnato il suo mandato assieme alla dichiarazione di “sentirsi stanco per il lavoro e le preoccupazioni che gli erano provenute dall’alta carica, alla quale era costretto a rinunciare per aver perso la collaborazione dei colleghi della Giunta comunale”. Il successivo 25 settembre i consiglieri comunali presero atto    delle sue dimissioni del Sindaco e di quelle dei quattro assessori effettivi con 7 voti favorevoli, 6 contrari e 4 astenuti.

 

Esattamente un mese dopo, il 25 ottobre, il Consiglio comunale fu convocato per l’elezione del nuovo primo cittadino. Alla riunione parteciparono solo 16 consiglieri su 30 i quali, con 14 voti favorevoli e 2 schede bianche, elessero sindaco Alessandro Renna Iannini che aveva già ricoperto la carica dal 17 novembre 1914 al 21 agosto 1915. Se la prima esperienza da sindaco di Renna Iannini era durata qualche mese la seconda non fu più lunga di due settimane. L’8 novembre, infatti, il Consiglio comunale fu chiamato a prendere atto delle dimissioni di tutti i 16 consiglieri appartenenti a una delle due fazioni in cui era diviso il Consiglio: si trattava di Giuseppe Carboni, Michele Castaldi, Giovanni D’Ambrosi, Archimede Fanfera, Giuseppe Ferrante, Giovanni Fontana, Giulio Lattanzi, Cesare Marchioni, Camillo Minotti, Benedetto Pantanelli, Alessandro Renna Iannini, Luigi Scifelli, Andrea Spinetti, Pietro Valle, Alberto Vespasiani e Pasquale Zirizzotti. L’esito della votazione dell’8 novembre comportò lo scioglimento immediato del Consiglio comunale e l’inizio di un lungo periodo di gestione commissariale con i funzionari prefettizi Ernesto Pellegrini. fino al 5 gennaio 1920, e Domenico Milani fino alla vigilia delle elezioni amministrative fissate per il 24 ottobre del 1920.

 In quelle elezioni, come scrisse il giornale dei giovani repubblicani di Frosinone, “Il Ribelle”:  “Due tendenze si contendevano Palazzo Berardi: i ‘partiti estremi’ ed il cosiddetto partito dell’ordine, o Comitato Antibolscevico ‘Viva l’Italia’ o per meglio dire l’on. Marzi con il popolo e l’on. Carboni con la Banca Popolare, i negozianti e i pescecani”. Le previsioni della vigilia facevano pensare ad un successo clamoroso del Partito Socialista tanto che il giornale romano “IlLazio Socialista” aveva scritto, poco tempo prima del voto, che “La vittoriasocialista delle ultime elezioni politiche ha lasciato molto addolorati i signorotti del frusinate i quali, per consolarsi e giustificarsi, vanno ripetendo ai quattro venti che la lotta li colse di sorpresa e li trovò impreparati. Ora anelano la rivincita e, si capisce, vedono nelle prossime elezioni amministrative una buona occasione per combatterci aspramente. Da tempo sono all’opera; la borghesia agricola e bottegaia è schierata come un solo uomo contro le nostreorganizzazioni le quali, però, più imperterrite che mai, marciano sicure verso nuove battaglie e nuovi trionfi”. Il timore di una vittoria socialista aveva indotto, infatti, il deputato Carboni a dar vita a un blocco con tutte le forze antisocialiste della città, il cosiddetto “Comitato Elettorale Antibolscevico” che dette vita a una lista capeggiata dall’ing. Gaetano Cacciavillani che comprendeva, oltre ai rappresentanti liberali, anche diversi candidati nazionalisti e fascisti come Pietro Gizzi, Tullio Bommattei e Aristodemo Vona e due socialisti “riformisti”, Luigi Valchera e Filippo Sordi.

La campagna elettorale per le prime elezioni amministrative del dopoguerra fu molto accesa e contrassegnata, così come lo era stata quella delle elezioni politiche dell’anno precedente, da scontri e violenze tanto che “Il Ribelle” arrivò a scrivere che si assisteva in città a una “lotta asprissima, che dal campo amministrativo è stata portata in quello politico, lotta che nessuno mai ricorda a Frosinone. Comizi, dimostrazioni tutte le sere! - scriveva ancora il giornale - Al tricolore succedeva subito la bandiera rossa seguita dal popolo acclamante; i liberali si rinchiudevano, i popolari tacevano, i socialisti, i repubblicani facevano le loro superbe grandiose manifestazioni. E si avvicinava la domenica 24 ottobre! Tutti i caffè, le cantine chiuse: proibita la vendita di liquori e di ogni alcool… ma fin dal mattino si vedevano gli ubriachi in giro”. Alla fine la vittoria andò alla lista del “Comitato Elettorale Antibolscevico-Viva l’Italia” che superò di soli sette voti quella dei socialisti, un risultato che fu favorito dal Partito Popolare che, all’ultimo momento, aveva riversato i suoi voti sui candidati del listone “antibolscevico”. A livello di rappresentanza nel Consiglio comunale la coalizione di tutte le forze cittadine che si opponevano al Partito Socialista ebbe venti seggi mentre alla lista capeggiata dall’avvocato Marzi andarono tutti i dieci seggi spettanti alla minoranza. Per il blocco del “Comitato Antibolscevico” risultarono eletti Francesco Antonio Alviti, Pietro Antonucci, Tullio Bommattei, Gaetano Cacciavillani, Giuseppe Carfagna, Domenico Ferrante, Agostino Gallina, Pietro Gizzi, Cipriano Iorio, Mario Marini, Salvatore Minotti, Pio Patrizi, Silverio Pizzutelli, Antonio Rea, Filippo Sordi, Giuseppe Spinetti, Luigi Valchera, Umberto Vittori, Edmondo Vivoli e Aristodemo Vona. Per la lista socialista entrarono in Consiglio comunale Vittorio Antonucci, Giovanni Bracaglia, Francesco Casali, Benedetto Ceccarelli, Ilio De Bernardis, Alessandro Francazi, Domenico Marzi, Antonio Minotti, Giuseppe Minotti e Arcangelo Silvestri.  

Il clima di scontro tra i sostenitori delle diverse forze politiche continuò in città ancora per giorni fino a che un neoeletto consigliere comunale socialista, il prof. Francesco Casali, fu fatto segno da tre colpi di revolver mentre, a tarda notte, rientrava nella sua abitazione in compagnia del segretario della Sezione socialista Vittorio Antonucci e del falegname Luigi Pafetti. L’autore dell’attentato, Gaetano Carboni, che era in compagnia di una “guardia investigativa” che non gli aveva impedito però di usare l’arma, prima di costituirsi fu visto recarsi nell’abitazione dell’on. Vincenzo Carboni. Pochi giorni dopo l’attentatore fu scarcerato e l’imputazione da mancato omicidio fu tramutata in “minaccia con arma”.  Il 9 novembre successivo il Consiglio comunale, convocato per la nomina delSindaco, elesse l’avvocato Pietro Gizzi con 20 voti favorevoli e 9 schede bianche. Si passò, poi, alla elezione della nuova Giunta comunale che risultò composta dagli assessori effettivi Agostino Gallina, Gaetano Cacciavillani, Edmondo Vivoli e Luigi Valchera e dai supplenti Antonio Rea e Salvatore Minotti.Per tutta l’estate successiva l’Amministrazione comunale si trovò in grosse difficoltà per la cattiva gestione dei calmieri sulla vendita al minuto della carne bovina e della farina e per le difficili condizioni igieniche della città causate dal cattivo funzionamento della macchina sollevatrice dell’acqua potabile e, anche, dai disservizi della società che gestiva l’illuminazione pubblica.La Giunta “antibolscevica” dovette, quindi, fronteggiare non solo gli attacchi dell’opposizione socialista e i forti malumori all’interno della stessa maggioranza ma, soprattutto, le continue proteste di una popolazione esasperata che, in più di un’occasione, dette vita a veri e propri tumulti in Piazza della Libertà e anche sulle scalinate che portavano all’aula consiliare di Palazzo Berardi. 

 I problemi interni alla coalizione di maggioranza - rivelarono in quei giorni alcuni giornali regionali tra cui “Il Paese” - erano dovutisoprattutto agli scontri tra consiglieri interessati alla scelta del luogo dove costruire l’Edificio scolastico comunale e all’esplosione di uno scandalo edilizio che riguardava il consigliere Pietro Antonucci, “direttore delle fornaci e la più grande colonna della Lega Antibolscevica”, che aveva allargato la sua fabbrica di laterizi sul tracciato di una strada comunale nei pressi del bivio di Ceccano. La Giunta comunale non resse a lungo quella situazione e il 31 ottobre il Sindaco comunicò al Consiglio le dimissioni sue e di tutti gli Assessori. L’avv. Gizzi si limitò a leggere un documento, approvato in Giunta nei giorni precedenti, che annunciava le dimissioni dell’intero esecutivo “in considerazione delle vivaci critiche ripetutamente rivolte da alcuni consiglieri all’indirizzo di tutta l’Amministrazione, ma più specificatamente dell’Assessore ai Lavori pubblici, che hanno determinato quest’ultimo a presentare le sue irrevocabili dimissioni”. Prese la parola, subito dopo, il consigliere di maggioranza Francescantonio Alviti per criticare duramente l’assessore ai Lavori pubblici, Gaetano Cacciavillani, per i disservizi nell’erogazione della luce elettrica e della Macchina della Fontana per l’approvvigionamento dell’acqua potabile. Alviti, dopo aver accennato anche al deplorevole stato delle strade, delle fogne e del cimitero cittadino, dove molte tombe si allagavano periodicamente, propose l’accettazione delle sole dimissioni dell’assessore Cacciavillani ribadendo la sua fiducia nel Sindaco e negli altri Assessori. Domenico Marzi, a nome del gruppo socialista, dichiarò, invece, di essere per l’accoglimento delle dimissioni tanto del Sindaco quanto della Giunta, sia per ragioni politiche sia per la mancata attuazione del programma a suo tempo presentato dall’Amministrazione. Alla fine della seduta mentre le dimissioni del Sindaco vennero respinte con 16 voti contro 8 e un astenuto, quelle dell’intera Giunta furono accettate da 18 consiglieri con un solo voto contrario e 6 astenuti. Qualche settimana dopo, il 28 novembre, venne eletta la nuova Giunta comunale con la riconferma degli assessori effettivi Gallina, Vivoli e Valchera e dei supplenti Rea e Minotti mentre il quarto assessorato effettivo andò ad Alviti che prese il posto di Cacciavillani. Il socialista riformista Luigi Valchera, però, fece conoscere immediatamente la sua indisponibilità a continuare a collaborare con il “Comitato Antibolscevico” e rassegnò le sue dimissioni per essere, poi, sostituito nella carica dal consigliere Mario Marini.  

Qualche settimana dopo, precisamente il 29 gennaio 1923, apparve, inaspettatamente, sui muri della città un manifesto a firma del sindaco Pietro Gizzi con il quale lo stesso annunciava la decisione di rassegnare le dimissioni dalla carica di primo cittadino. Così era scritto nel manifesto indirizzato a tutti i cittadini di Frosinone: “I nuovi eventi politici maturati anche nella nostra città, nonché particolari condizioni di famiglia mi impongono di rassegnare inesorabilmente le mie dimissioni da Sindaco”. Lo sconcerto nella città fu enorme anche perché non venivano chiariti i veri motivi che avevano portato il Sindaco a quella decisione. Cominciarono a circolare nella città varie ipotesi fra le quali, la più plausibile, rimandava a quanto era successo a Frosinone il giorno della “Grande adunata fascista” del 15 ottobre dell’anno precedente. Quel giorno, infatti, gli squadristi di Frosinone e di altri centri del circondario avevano assalito per ben due volte i locali di proprietà del Comune, detti di S. Francesco, che ospitavano da anni la sede della Camera del Lavoro con l’assenso dell’Amministrazione comunale. Il secondo assalto di quella giornata, in particolare, aveva portato alla completa devastazione dei locali e l’accaduto aveva spinto il sindaco Gizzi ad inviare, il 9 dicembre, un telegramma al Sottosegretario di Stato all’Interno in cui si lamentava per “la violenza inutile compiuta locale sezione fascista colla invasione locali di proprietà questo municipio adibiti a Coop. e Camera del Lavoro. Elevo tale protesta con l’amarezza di chi fervidamente secondato seguito movimento fascista come rigeneratore vita pubblica italiana”. Lo stesso giorno partì da Frosinone un telegramma del Direttorio fascista di Frosinone, direttamente indirizzato a Mussolini, in cui si contestava l’iniziativa del primo cittadino: “La protesta sindaco Frosinone - si affermava nella comunicazione - non è coerente suo atteggiamento precedente. Atto compiuto sezione fascista risponde a disciplina e senso di responsabilità”. La questione dei locali comunali devastati risultò effettivamente la causa della profonda frattura fra l’avv. Gizzi e il fascio locale. 

Il successivo 15 febbraio si riunì il Consiglio comunale con all’ordine del giorno le dimissioni di Pietro Gizzi che, però, non si presentò insieme ad altri 12 consiglieri. In apertura dei lavori il segretario comunale Francesco Zallocco dette lettura di una comunicazione del Sindaco, datata 29 gennaio, diretta all’assessore anziano Alviti con la quale confermava la sua decisione. Nei giorni successivi anche i 16 consiglieri nazionalisti e fascisti presentarono le loro dimissioni e, visto che da tempo i dieci eletti socialisti e comunisti avevano lasciato il Consiglio comunale, ne restarono in carica solo quattro per cui il Consiglio venne sciolto. La impraticabilità di una qualsiasi soluzione positiva alla crisi amministrativa spinse allora la Prefettura di Roma a nominare, a partire dal 17 aprile 1923, il funzionario Ernesto Pellegrini quale Regio commissario prefettizio al Comune di Frosinone. Dopo di lui, fino alla fine del 1926, si susseguirono diversi altri commissari: Antonio Turriziani, Raffaello Palladino, Alberto Ghislanzoni, Umberto Velli, Steno Pelotti e ancora Antonio Turriziani che il 2 gennaio 1927 divenne il primo podestà di Frosinone. A seguito delle sue dimissioni (17 luglio 1930) e fino al mese di luglio del 1931 il Comune fu di nuovo commissariato e la sua gestione venne affidata ai funzionari prefettizi Pietro Chiaratti, Giovanni De Contini e Ulrico Isernia. Il 23 giugno 1931 con la nomina a podestà dell’avvocato Camillo Bracaglia si torna, momentaneamente, alla normalità. Ma solo fino al 4 luglio 1934 quando a seguito delle dimissioni di Bracaglia subentrò dapprima il commissario prefettizio Arturo Rota (20 luglio 1934-12 settembre 1935) e, poi, dal 13 settembre 1935 al 25 giugno 1939 dal nuovo podestà l’avvocato Giuseppe Ferrante. A seguire, fino al 5 marzo 1940 i commissari Egisto Ferretti e Giuseppe Zacchi e, quindi, Pietro Gizzi, l’ultimo podestà che restò in carica fino al 28 luglio 1943. 

Per circa venti anni i frusinati non erano stati più chiamati ad eleggere il proprio sindaco e i consiglieri comunali. Le “leggi fascistissime” del 1926 avevano affidato alle gerarchie del regime il diritto di nomina dei podestà che concentravano su di loro l’intera responsabilità dell’amministrazione cittadina. A differenza di quanto si è portati a pensare il sistema del “partito unico” introdotto dal fascismo non garantì alcuna stabilità ai Comuni italiani e a Frosinone, in particolare, si avvicendarono alla guida del municipio in quel ventennio circa 20 tra podestà e commissari prefettizi. Il fenomeno va ricercato negli aspri contrasti d’interesse fra le varie fazioni del fascismo locale con denunce, spesso anonime, di illegalità e affarismo nei confronti del podestà di turno. Fu molto evidente come alle battaglie elettorali che dal 1870 avevano visto scontrarsi uomini e partiti di varie ideologie e posizioni politiche si era sostituita, tra il 1923 e il 1943, una lotta politica tutta interna alle strutture del regime per il predominio sull’amministrazione cittadina.

AGLI AMICI LETTORI: SI CONCLUDE COSI’ QUESTA SERIE DI “FROSINONE TRA 800 E 9OO”

GRAZIE PER L’ATTENZIONE.

Maurizio Federico